Guido Vitiello

Una piramide azteca per i misteri d’Italia

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I misteri d’Italia potrebbero offrire il pretesto per lanciare un grande piano di edilizia pubblica e dar lavoro a migliaia di carpentieri. Osservando lo strabordare del processo Valpreda, Giorgio Manganelli suggeriva di costruire castelli finto gotico per raccoglierne gli atti. Magari fosse solo lo scherzo di un letterato. Nei primi anni Novanta una faraonica inchiesta della procura di Palmi sugli intrecci tra massoneria e criminalità organizzata produsse una mole di incartamenti tale che il ministro della Giustizia, dietro pressioni del Csm, dovette affittare un capannone per contenerli.

Le cose si aggravano quando alle inchieste giudiziarie si affianca lo strano duplicato delle commissioni parlamentari. Vladimiro Satta, documentarista del Senato e storico, nel suo nuovo libro I nemici della Repubblica (Rizzoli) riporta una stima secondo cui la documentazione conservata dalla Corte d’assise del tribunale di Roma sul caso Moro è pari, in quantità, all’intera produzione della stessa Corte dal 1951 al 1971. E la mole è destinata a crescere, perché dal 2013 la procura di Roma è tornata a occuparsi della vicenda. Gli atti parlamentari della commissione Moro sono invece raccolti in 130 volumi, per un totale di sessantamila pagine; e quelli della commissione Stragi, in buona parte dedicati anch’essi a Moro, ammontano a quasi un milione di pagine.

Ma a quanto pare non bastano, perché nel 2014 è stata istituita una nuova commissione. Si dovrà erigere una piramide azteca nel centro di Roma per ospitarne i fascicoli. C’è speranza di fare grandi scoperte? Satta – che al caso Moro ha dedicato già due libri – ne dubita. Sfileranno testimoni sempre più anziani e dalla memoria ormai appannata. E forse nel 2078, quando per il centenario si insedierà l’ennesima commissione, toccherà far davvero la seduta spiritica di Romano Prodi, perché i protagonisti saranno tutti morti, e Mario Moretti starà scontando nell’oltretomba uno dei suoi sei ergastoli.

Il caso Moro occupa solo un capitolo del libro di Satta – che copre tutta la stagione tra piazza Fontana e la stazione di Bologna – ma è esemplare di un certo approccio alla storia italiana. Del caso Moro ormai si sa tutto. I misteri che restano sono dettagli (uno su tutti: l’identità dei due motociclisti che forse c’erano, o forse non c’erano, nell’agguato di via Fani). E l’esperienza dimostra che di solito i nuovi tasselli lasciano inalterata la composizione del puzzle, ormai fin troppo chiara. Ma è proprio la chiarezza a non piacere. L’esempio più rivelatore è quello del cosiddetto “quarto uomo”. Quando si conoscevano solo tre dei carcerieri di Moro, qualcuno – e più di ogni altro il senatore comunista Sergio Flamigni – suggerì che doveva essercene un quarto, il misterioso raccordo tra le Br e i poteri occulti, l’emissario di trame atlantiche inconfessabili. Flamigni aveva ragione: saltò fuori un quarto uomo. Ma era molto diverso da come se lo immaginava: era un altro brigatista, e neppure uno dei capi. Si arrese all’evidenza? Nemmeno per idea: cominciò a fantasticare sull’esistenza del “quinto uomo”.

Tutto questo illumina l’inclinazione esoterico-religiosa di molti cosiddetti cercatori della verità. Quando la verità è banale, la scartano. Una pagina del Pendolo di Foucault di Umberto Eco racconta di come già all’alba del Cristianesimo la rivelazione cominciò a sembrare poca cosa. “Il mistero trinitario? Troppo facile, ci dev’essere qualcosa d’altro sotto”. I Flamigni dell’epoca avranno ipotizzato l’esistenza di un quarto dio, e poi di un quinto. Intanto, innalziamogli un bel tempio. Ci sarà lavoro per tutti. IL, aprile 2016

 

 

Written by Guido

aprile 30, 2016 a 2:55 PM

Pubblicato su IL

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