Angeli neri, giudici e pentiti. Sciascia lettore di Belli
Il sorriso di Doina Matei e il digrignar di denti della strega sottoposta ai supplizi, in cui gli inquisitori vedevano una smorfia ilare, un farsi beffe dei giudici, e dunque un segno certo di possessione diabolica (“Io stringo i denti e poi diranno che rido”, aveva protestato cinque secoli fa Franchetta Borelli, una delle streghe di Triora, messa al tormento del cavalletto). Il contegno algido e schivo di Raffaele Sollecito e il maleficio della taciturnitas, che consentiva all’eretico di resistere cocciutamente all’incalzare dell’interrogante. Il ciglio asciutto di Amanda Knox e l’incapacità di versare lacrime perfino in mezzo alle torture, assunta come prova del servizio a Satana, secondo il Malleus maleficarum.
Il sentimento della giustizia, o di quel che in Italia prende inspiegabilmente questo nome, è ancora schiavo di una casistica medievale, tanto più che un maestro di questa sottile fisiognomica persecutoria, Francesco Merlo, sale ora ai vertici dell’informazione pubblica. Non c’è modo di scrollarsi di dosso i residui di una mentalità penitenziale e inquisitoria, doloristica e purgatoriale, non si riesce insomma a laicizzare la giustizia, ed è per questo che a decifrare le cronache dei processi spesso un teologo val più di un giurisperito. È stata la grande intuizione storica di Italo Mereu, e il grande assillo letterario di Leonardo Sciascia.
Tra i saggi di Sciascia appena raccolti da Paolo Squillacioti in Fine del carabiniere a cavallo (Adelphi) ce n’è uno che offre una magnifica illustrazione di tutto questo, oltre a dar la riprova che non esiste uno Sciascia minore, ma solo uno Sciascia raro o disperso. S’intitola “Quando Belli inventò il pentitismo”, e uscì sull’Espresso il 26 ottobre 1986 nella rubrica “L’Enciclopedia”. Me ne parlò anni fa Mauro Mellini, che l’aveva menzionato anche in una sua antologia di sonetti di Belli, ’Sta povera giustizzia (Rubbettino), ma finalmente grazie a Squillacioti il lettore è dispensato dal pellegrinaggio in emeroteca. Sciascia commentava un sonetto, “Gli angeli ribbelli”, dove Belli racconta la congiura di Lucifero. “Appena un angelaccio de li neri / pijò l’impunità, sarva la vita, / Iddio chiamò a l’appello una partita / De Troni, Potestà e Cherubbiggneri”. Con in testa San Michele Arcangelo a cavallo, i corpi di polizia celesti si avviano a stroncare la sedizione.
Pigliare l’impunità nella Roma pontificia, commenta Sciascia, “significava – né più né meno – il dissociarsi e il pentirsi oggi di brigatisti, camorristi e mafiosi. Ed è curioso che soltanto dal pentimento e dalla delazione di un angelo ‘nero’, di quelli cioè che congiuravano per detronizzarlo, Iddio (che certamente già sapeva) si senta come formalmente, come giuridicamente a posto per procedere all’epurazione e punizione dei ribelli: quasi Gioacchino Belli anticipasse in allegoria, in metafora, quel che sotto i nostri occhi abbiamo visto accadere”.
Era l’ottobre del 1986, si è detto: Tortora era stato assolto da poche settimane, a Palermo si celebrava il Maxiprocesso, e Patrizio Peci, il protopentito brigatista, era stato scarcerato da qualche mese per aver fatto arrestare un bel po’ di angeli ribelli; ma passati trent’anni sotto i nostri occhi il panorama non è molto cambiato. Il paradosso teologico di un Dio onnisciente che ha bisogno della soffiata di un delatore per dare il via alla retata si riproduce in quello del magistrato con presunzione d’onniscienza che si serve del pentito per ottenere conferma di ciò di cui si è già persuaso per altre vie. E però in terra non è mai come in cielo, può perfino capitare che sia il pentito a tirare i fili del piccolo padreterno, o che schiere di solerti inquisitori abbiano buon gioco a farsi menare per il naso per anni da uno Scarantino, salvo poi sconfessarlo come un povero diavolo.
“E vadano appunto al diavolo i cosiddetti garantisti: se non sanno stare dalla parte di una così divina istituzione”, concludeva Sciascia. Oggi un erede del sommo giudice di Belli è l’intercettatore che fruga nel segreto dei cuori, anche se, ammonisce il Siracide, “è cosa da stolti stare a origliare alla porta”. Nuovo capitolo di una teologia giudiziaria. Chissà cosa ne avrebbe scritto Sciascia, magari illuminando un altro sonetto di Belli.
Articolo uscito sul Foglio il 26 aprile 2016 con il titolo Il giudice e Dio
Se non fosse che il Procuratore la ha rimessa velocemente in libertà, assolvendo specificamente il sorriso.
Piace sottolineare, peraltro, che il linciaggio della poveretta è stato fatto dai giornalisti (che hanno pure scovato il profilo privato) e non dai giudici.
david
Maggio 4, 2016 at 6:03 PM