Guido Vitiello

Il Cacciatore Celeste. Piccola escursione venatoria

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Alberi, driadi, animali, cacciatori in varie posture adornano gli affreschi nel salone del ristorante di uno dei luoghi più elusivi della letteratura occidentale, l’albergo dove Humbert Humbert possiede per la prima volta Lolita. Il nome sibillino che Nabokov volle dare all’albergo – The Enchanted Hunters, i Cacciatori Incantati – è un invito cifrato a leggere Lolita come un piccolo trattato di eros metafisico in forma di romanzo, forse la sola forma oggi possibile. Pochi hanno risposto al corno da richiamo di Nabokov setacciando fino ai margini più bui il terreno di caccia che era così offerto alle incursioni, e tra quei pochi Roberto Calasso, che al romanzo del predatore divenuto preda della sua preda dodicenne ha dedicato alcune delle sue pagine più felici.

Di Lolita non si fa neppure il nome ne Il Cacciatore Celeste (altra insegna niente male per un motel del Midwest), ma se Calasso avesse voluto assecondare la sua inclinazione ai titoli monosillabici – da Ka a K. – avrebbe potuto chiamare il libro semplicemente *wen, radice indoeuropea su cui per qualche ragione mi arrovello da anni e da cui discendono Venus, venari e venerari, la triade della venerazione, della caccia e della possessione amorosa. L’inglese venery tuttora tiene assieme lussuria e arte venatoria.

“Gli animali che si cacciano sono come donne che civettano” è uno degli antichissimi aforismi citati nelle prime pagine del Cacciatore Celeste; e se ne possono invertire senza rischio i termini, perché tutto quel che si dice del sesso vale per la caccia, e tutto quel che si dice della caccia vale per il sesso. Il cacciatore compiuti i suoi atti di devozione si profuma come per prepararsi a un ballo, a un corteggiamento di bestie gelose e schive. Ma è bene che i due ambiti, così pericolosamente prossimi, si rispecchino l’un l’altro senza osare sfiorarsi: le esplosioni catastrofiche prodotte dalla mescolanza incestuosa di eros e caccia sono attestate in mille favole antiche – Atteone sbranato dai cani, Adone che offende Venere preferendo correr dietro ai cinghiali, Dafne che si divincola da Apollo, Narciso che si riposa alla fonte dopo la caccia e finisce preda di un’immagine – e d’altronde un’immagine mentale, un simulacro, una statua, un feticcio è la posta in gioco degli amori metafisici.

La spedizione di Calasso è quasi tutta rivolta al tempo profondo – la preistoria, i primi popoli di cacciatori, lo sciamanesimo, l’Egitto, la Grecia – dove si distinguono orme dalla strana forma di animali estinti, reali o favolosi, la cui fisionomia originaria si può solo congetturare, disegnandovi intorno miti e storie. La prima di queste impronte è la costellazione di Orione. Raramente Calasso si volta indietro, ossia in avanti, anche se queste occhiate occasionali sono spesso fulminanti (il lettore troverà, fra l’altro, una definizione di Himmler come “massaia suprema” del tinello germanico). È cacciando che gli uomini diventarono animali metafisici; e la caccia è la matrice di tutti gli sdoppiamenti – l’uomo e l’animale, il predatore e la preda, l’osservatore e l’osservato nel teatro della mente – dunque di tutte le vie di ricomposizione. Ma perché compendiare quattrocento pagine in poche righe, prestandosi a quel noioso esercizio di agricoltura intensiva che siamo soliti chiamare recensione? La giornata è buona per una piccola escursione venatoria nella direzione opposta. E anche se l’eros metafisico è solo uno dei molti sentieri battuti nel libro, seguiamolo per qualche passo ancora, quanti bastano per vederci cadere ai piedi una constatazione inaggirabile: tutte le grandi rinascenze amorose dell’Occidente, o se vogliamo le cicliche rinverdite dell’eros metafisico, sono state segnate da un’insistenza vicina all’ossessione per le immagini legate alla caccia.

Per non perderci Calasso nei boschi preistorici facciamo una tacca sul tronco di Ovidio (nel Cacciatore Celeste gli è dedicato un capitolo), che prese alla lettera la metafora della caccia d’amore e la consegnò al Medioevo. È questa la stagione in cui l’eros metafisico si carica di nuovo in spalla la faretra, scatena cani, falconi e altri uccelli da preda, si rende quasi indiscernibile dalla caccia. A inaugurare la partita è un anonimo poema francese del tredicesimo secolo, Li dis dou cerf amoreus, dove la Dama diventa cervo d’amore. Il Tristano di Gottfried von Strassburg insegna l’arte della caccia agli uomini del re ma diventa preda di Isotta, presentata in versi magnifici come il “falcone della Minne” appostato su un ramo per tendergli la trappola fatale dello sguardo; anche Erec e Enide sono falcone e cervo, predatore e preda; e tutto sembra ricapitolarsi nel grande ciclo mitologico dell’unicorno catturato dalla Dama. Qualche passo ancora sullo stesso sentiero ed ecco la seconda grande stagione dell’eros metafisico, quella cinquecentesca, che vide la fortuna di trattati erotico-cinegetici come La Vénerie di Jacques du Fouilloux e il nuovo splendore donato da Giordano Bruno al mito di Diana e Atteone, il “gran cacciator” divenuto caccia.

Ma è già tempo di rientrare. Ottava parte di un’opera inaugurata nel 1983 da La rovina di Kasch, Il Cacciatore Celeste si chiude dove quell’esordio si apriva. Se nel Kasch un sillogismo perentorio e sognante portava a dedurre che la società stessa è la rovina, il Cacciatore si conclude evocando “la via per andare al di là della società”, ossia i Misteri eleusini. E a Eleusi è destinata a tornare anche la mia caccia di frodo nei terreni dei medievisti, prima che mi sbranino (sono le iene gli antenati dei filologi, suggerisce malizioso Calasso). A congedarsi dalla società e dal mondo, a non altro era servita l’ascesi degli amanti cortesi; e l’idea che una “luce da Eleusi” avesse proteso i suoi ultimi raggi nella Provenza dei trovatori era stata la stella polare di Ezra Pound, ancorché segnata sulle effemeridi poco affidabili di spiriti bizzarri come Rossetti e Péladan. Questa però è materia per un altro libro, e per un’altra battuta di caccia.

Articolo uscito sul Foglio il 14 maggio 2016 con il titolo La caccia nel tempo profondo che trasformò l’uomo in animale metafisico

 

Written by Guido

Maggio 17, 2016 a 9:25 am

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