Guido Vitiello

Giovanni, telegrafista (Mani bucate, 14)

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Questa settimana l’ho fatta grossa: ho comprato un telegrafo. D’accordo, non proprio un telegrafo vero, ho comprato un telegrafo giocattolo prodotto negli anni Cinquanta dalla Bral, quella che fabbricava i trenini, il meccano e altre minuterie metalliche. È tutto ossidato e corroso, non c’è verso di farlo funzionare, ma poco importa. L’ho comprato per allestire un modesto tabernacolo casalingo alla più bella, inarrivabile delle canzoni: Giovanni, telegrafista di Enzo Jannacci.

Apparsa, nel 1967, sul lato in ombra del 45 giri di Vengo anch’io. No, tu no, eclissata da un disco solare più solare, Giovanni, telegrafista sta alla canzone italiana del Novecento come L’anguilla di Montale sta alla lirica. Ma non vi aspettate di sentirmi dire che è una canzone così bella che è quasi una poesia, per due ragioni. Primo, perché è una variante – molto usata dagli estimatori di De Andrè – di quella nota sciocchezza che nella forma più comune suona così: “Se mia nonna avesse le ruote sarebbe una carriola”, dove è implicito il disconoscimento della possibilità che la nonna (bipede, almeno in origine) possa deambulare anche senza ruote, e che, di converso, una carriola possa cavarsela senza nipoti. Secondo, perché Giovanni, telegrafista era in effetti una poesia: João, o telegrafista, scritta alla fine degli anni Quaranta da Cassiano Ricardo, che Jannacci pescò da un’antologia di poeti brasiliani curata da Ruggero Jacobbi e musicò.

Solo che dopo Jannacci è impossibile leggerla come poesia – quasi che, una volta munita di ruote la vecchietta, ci si accorgesse che la sua natura profonda era appunto di carriola (la considerazione non ha impedito alle mie mani bucate di avventarsi su tutto quel che c’era da leggere di Cassiano Ricardo). Perché a quei versi sul telegrafista eremitico nella sua stazione povera con più alberi e uccelli che persone, l’uomo più solo al mondo che batte su un tasto solo sperando di ritrovare l’amata Alba fuggita all’alba verso le luci della grande città, Jannacci seppe aggiungere la sua voce e la sua mimica da extraterrestre caduto chissà come su questo pianeta; e perché i due caratteri dell’era telegrafica – l’ellissi, l’urgenza – che il modernista Ricardo aveva saputo trasformare per virtù di stile nel singhiozzo di un uomo a cui venga a mancare il respiro, frastornato dalle informazioni guizzanti da ogni capo del mondo, perfettamente isolato tra reticoli di impulsi elettrici, la canzone li faceva girare, come rondini intorno a un palo telegrafico, sul perno di un motivo assillante, quel píri-pirí-pirí-pirí-ppíppi da Samba su una nota sola di Jobim, che trasformava il codice morse nell’equivalente sonoro dell’idée fixe, della monomania amorosa.

La grande stagione poetica del telegrafo era stata almeno mezzo secolo prima, sia della poesia di Ricardo sia della canzone di Jannacci, al tempo in cui le avanguardie più euforiche orchestravano su pagina la simultaneità, l’abbattimento delle distanze, la trasformazione del pianeta in un grande cervello pulsante. Che era però già un cerveau pourri, un cervello putrido, come aveva scritto Laforgue. Perciò Giovanni, telegrafista era uno strano esemplare di modernismo di modernariato. Come il mio telegrafo giocattolo, che proprio perché imputridito dalla ruggine mi pare un degno altare meccanico alla più bella, inarrivabile delle canzoni.

Il Foglio, 3 settembre 2016

Written by Guido

settembre 10, 2016 a 6:40 PM

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