Yolocaust, Auschwitz e l’arte del cortocircuito (Mani bucate, 29)
In attesa del Giorno della Memoria, ecco un piccolo elenco alla rinfusa di fatti diversi degli ultimi anni che nulla hanno a che fare con la memoria: giocare a Pokémon Go nel Museo dell’Olocausto di Washington; srotolare un’enorme bandiera con la svastica sul palazzo della prefettura di Nizza per promuovere un film; riprendere il nonno sopravvissuto e i nipoti che ballano I will survive davanti ai cancelli di Auschwitz e caricare il video su YouTube; disegnare i Simpson dietro al filo spinato; fotografare, oggi, i luoghi dello sterminio usando le stesse angolazioni delle vecchie immagini e poi aggiungere in sovrimpressione, come gli ectoplasmi nelle foto degli spiritisti ottocenteschi, le sagome dei deportati in casacca a strisce.
Quest’anno a scompigliare un poco il cerimoniale del Giorno della Memoria è arrivato Yolocaust – il titolo è un gioco di parole su Yolo, acronimo colloquiale che sta per You Only Live Once –, un progetto fotografico di Shahak Shapira, giovane artista e umorista israeliano che ha vissuto molti anni a Berlino. Per Yolocaust, Shapira ha pescato dai social network fotografie di visitatori del Denkmal di Berlino che fanno le cose più varie – saltano, ammiccano, praticano yoga, protendono sorridenti il selfie stick – e le ha combinate con immagini d’archivio dei campi di concentramento; di modo che quando ci si passa sopra il mouse, i turisti virano dal colore al bianco e nero e alle loro spalle appaiono distese di cadaveri. Il memoriale di Eisenman si presta da che esiste a esibizioni di ogni genere, ed è ironico che un luogo nato sotto l’insegna della retorica dell’irrappresentabile – un immenso reticolo astratto di blocchi grigi di cemento – sia diventato il set di una perenne rappresentazione.
Nell’idea di Shapira non c’è molto di nuovo, a meno di voler definire nuova la fusione di due cose vecchie di vent’anni: l’Autoritratto a Buchenwald dell’artista digitale inglese Alan Schechner, che aveva preso una foto di deportati in una baracca e ci aveva infilato la propria immagine con una lattina di Diet Coke in mano; e quel vario filone di critica culturale sul turismo nei luoghi della memoria che dai tempi di Schindler’s List ha ispirato saggi, romanzi e perfino qualche film – il mio preferito è il cortometraggio The Holocaust Tourist di Jes Benstock, l’ultimo di cui abbia notizia è Austerlitz di Sergei Loznitza, presentato l’anno scorso a Venezia.
Ma che cosa accomuna gli esempi sparsi del mio elenco – alcuni frivoli, altri serissimi – presi dall’arte, dalla pubblicità, dalle cronache di costume, dalle mode? Li accomuna il tentativo di creare una collisione tra presente e passato che inneschi, secondo i casi, shock, sensazioni perturbanti, scandalo, terrore, divertimento, sdegno, disgusto. Questo cortocircuito segue di solito due schemi, uno più rassicurante, l’altro decisamente meno. C’è lo schema che potremmo chiamare Forrest Gump – ci si intrufola nelle immagini dei campi di concentramento come Tom Hanks faceva capolino nei filmati in bianco e nero accanto al presidente Kennedy; e c’è lo schema Shining – dove è Auschwitz che viene a farci visita, squarciando per lampi improvvisi e violenti la trama della nostra quotidianità. Per una via o per l’altra, tra passato e presente non c’è modo di creare nessuna continuità naturale, bisogna forzarne l’incontro come si ravvicinano i lembi di una ferita da suturare. A molti questo vecchio arnese dell’avanguardia pare l’unico espediente per scuotere il lunghissimo e dilatato istante in cui le nostre vite ristagnano, anche grazie a un secolo di bombardamento sensoriale inaugurato appunto dall’avanguardia.
In tutto ciò, non ho ancora detto perché i miei esempi non hanno nulla a che fare con la memoria. È che, da quando mi sono messo a scrivere, l’ho dimenticato.
Il Foglio, 21 gennaio 2017
“ Giovedì 18 dicembre 1997 – Il sospetto che in « Auschwitz » ci sia comunque un « Witz ». “.
acabarra59
gennaio 23, 2017 at 2:06 PM