L’incubo del condannato. Una rêverie metafisica (Mani bucate, 28)
Il paradosso del sognatore sognato; la mise-en-abîme dei sogni incastonati in altri sogni; l’idea, infine, che il mondo stesso non sia che il sogno di una divinità dormiente. Da questi giacimenti le metafisiche e le mitologie dell’India hanno saputo estrarre diamanti dalle forme più intricate, inventariati negli studi di Arvind Sharma e, soprattutto, di Wendy Doniger. In Occidente si tratta di affari marginali, rimessi quasi per intero alle cure dei letterati – qualcuno penserà a Borges, a Pirandello, all’Unamuno di Nebbia – che spesso ne hanno ricavato opere infrigidite dal concettismo e dall’arguzia. Per il cinema, il pensiero va a quella sotterranea corrente indianeggiante che dal Sogno di prigioniero di Hathaway, venerato dai surrealisti, arriva a Lynch e a certi film-rompicapo degli ultimi anni.
Doniger (Sogni, illusioni e altre realtà, Adelphi) pensava che la propaggine occidentale più riconoscibile delle speculazioni indiane fosse il capitolo di Attraverso lo specchio in cui Alice incappa nel Re rosso addormentato. Cosa starà sognando? Tweedledum e Tweedledee tentano di convincerla che il re sta sognando proprio lei e che, se si svegliasse, Alice si spegnerebbe come la fiamma di una candela (la metafora rispecchia il senso letterale della parola nirvana). Io credo però di aver scovato un esempio che, se meno nobile di Carroll, pesca in abissi altrettanto profondi. Nel 1961 la Cbs mise in onda un episodio di The Twilight Zone, l’antologia del fantastico di Rod Serling, intitolato “Shadow Play”. Lo aveva scritto Charles Beaumont sul canovaccio del suo racconto Träumerei (chi ha le mani bucate lo cerchi nella raccolta Yonder). Era la storia di un condannato a morte per omicidio che tentava disperatamente di persuadere i giudici che, se avessero eseguito la condanna, anche loro sarebbero morti, già che l’universo non era che un suo incubo ricorrente, destinato a ripetersi ogni notte (l’uomo si chiamava Adam, con un’eco cabalistica). L’episodio si apriva sul volto del condannato immerso nel buio, un teatro mentale dal quale emergevano, come evocate dall’ombra, le sagome dei giurati, dei cancellieri, dei giudici; e dopo discussioni, terrori indefiniti, esperimenti di vario genere sulla consistenza del mondo, tentativi di saggiare la salute mentale dell’imputato o, al contrario, di trovare nelle incongruenze della realtà un appiglio alla sua idea fissa, il procuratore chiedeva in extremis la sospensione dell’esecuzione. Troppo tardi: Adam finiva ucciso sulla sedia elettrica, si tornava al buio iniziale. Ne emergeva una nuova Corte, identica alla prima, se non che gli attori si erano scambiati di ruolo, come rimescolando un mazzo di archetipi: l’avvocato aveva ora il volto del procuratore, il giudice quello di un compagno di cella.
Poco più di venti minuti per una rêverie metafisica vertiginosa: il mondo come incubo di un condannato primordiale, la cui trama di illusioni si irraggia ciclicamente da una rifondazione sacrificale, si rigenera sul patibolo. Se lo vedesse Wendy Doniger, chissà quante corrispondenze saprebbe trovare nei testi indiani. Io posso aggiungere solo un paio di note a margine. La prima è che esiste una zona ai confini del canone occidentale – visitata da giganti come Kafka ma anche da oscuri scrittori di racconti di fantascienza o dell’orrore, i cui diamanti un po’ grezzi giacciono ancora in vecchie riviste pulp – in cui si pensa in sanscrito, qualunque sia la lingua in cui si trascrivono i pensieri. La seconda è che il mondo sarà pure il sogno di un dio; ma per chi ha le mani bucate come me e, per seguire un’intuizione, si mette a setacciare la letteratura di ogni latitudine, c’è sempre un brusco risveglio. È il momento in cui arriva l’estratto conto della carta di credito, che non è scritto in sanscrito.
Il Foglio, 14 gennaio 2017
“Il mio sogno della notte appena passata, chi mi dice che non continui quello della notte precedente e non sia continuato con rigore meritorio nella notte che verrà? È ben possibile, come si dice. E poiché non si può in alcun modo dimostrare che, se è questo il caso, la “realtà” che mi occupa sussista allo stato di sogno, che non sprofondi nell’immemorabile, perché non dovrei concedere al sogno ciò che talvolta rifiuto alla realtà, cioè quel valore di certezza di se stessa che, durante il suo tempo, non rischia una smentita da parte mia?” (André Breton, Manifesto del surrealismo)
Non credo che nel 1924 esistessero le carte di credito, però Breton ha fatto la fame pur di non darla vinta alla realtà. Eppure non si sarebbe spinto così in là da pensare di essere il sogno di un altro. Troppo occidentale per questo, troppo cartesiano suo malgrado, troppo interessato all’identità – qualsiasi cosa essa sia.
dallamiatazzadite
gennaio 22, 2017 at 3:11 PM