Il secondo tragico Bel-Ami
Si presenta alla cena di gala con un frac preso a nolo, per giunta della taglia sbagliata; è a disagio, “leggermente imbarazzato” dice il narratore, e scivola ancor più nel panico quando a tavola si trova davanti una schiera di calici di varia foggia e non sa da quale, secondo galateo, dovrà bere. Chi ci ricorda? No, non è Fantozzi alla cena aziendale della Serbelloni Mazzanti Viendalmare. È Georges Duroy al suo debutto mondano, così come Maupassant lo descrive nelle prime pagine di Bel-Ami. Due personaggi all’apparenza inconciliabili, se non fosse che un compendio vivente lo abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: Luigi Di Maio, il secondo tragico Bel-Ami. Non so cosa indossasse quella sera a Cernobbio, quando il rag. Monti, probabilmente dopo aver divorato un tordo in un boccone, salutò in lui “un raffinato borghese”; so però che soltanto un Bel-Ami ibridato con Fantozzi avrebbe potuto suggellare con queste parole la fine dell’amore con la collega Silvia Virgulti Viendalmarketing: “È una risorsa preziosa del gruppo e continuerà ad esserlo”.
Il fuoco dell’ambizione che consuma certi uomini dà spesso un sinistro bagliore letterario, riverberato dall’archetipo di Maupassant. Sciascia, per esempio, considerava Scalfari “un Bel-Ami della nostra epoca” (lo stesso annotava Montanelli nei diari). E in questi giorni fausti in cui il vecchio Bel-Ami butta giù dalla torre il giovane Bel-Ami, si tratta non già di infierire sulla disparità dei talenti tra l’uno e l’altro, ma di ragionare sui contesti, sulle compagnie, sui climi politici in cui l’ambizione ha l’occasione di dispiegarsi. Perché l’ambizione sbrigliata, senza contenuto e senza freno, senza il corsetto di un’etica civile o l’ancoraggio di una cultura politica, è una delle potenze più pericolose che si possano vedere all’opera nell’arena della storia; e quelli che criticano Scalfari con l’argomento che “almeno” di Luigi Di Maio non sappiamo nulla, che è un’incognita, l’ignoto da preferire al troppo noto, rivelano un’abissale incomprensione delle cose umane.
Vedetelo, Georges Duroy, sottufficiale squattrinato di ritorno dall’Algeria, che nei paraggi dell’Opéra incontra un commilitone divenuto giornalista e si fa arruolare nella sua redazione. Quello stesso reduce, nell’Italia del primo dopoguerra, sarebbe forse finito in camicia nera – come accade al Bel-Ami più disperato che ambizioso della Marcia su Roma di Dino Risi, Vittorio Gassman, che s’imbatte a Milano in un suo ex comandante divenuto fascista. Al giovane Scalfari, come a Duroy, le cose andarono meglio, e invece di ritrovarsi a cantare le strofette degli arditi (“Se non ci conoscete, o bravi cittadini, noi siamo delle schiere di Benito Mussolini”), poté godersi, nell’altro dopoguerra, la parodia deliziosa che qualcuno approntò per la compagnia del “Mondo”: “Se non ci conoscete guardateci i calzini, noi siamo i liberali del conte Carandini”.
Dell’ambizione, quando diventa affare pubblico, non bisogna dare un giudizio en moraliste, bensì tutto politico e contestuale. E uno dei problemi del secondo tragico Bel-Ami, il Duroy dei tamarri, è che la sera va in posti molto diversi da via Veneto. La sua cerchia è fatta da un comico paranoide e antisemita, dall’erede dinastico di un imprenditore-ideologo con idee farlocche, da un ragazzotto della scuderia di Lele Mora che ha portato i parlamentari a farsi sbiancare i denti per ragioni di telegenia. Dell’ambizione di Di Maio vediamo tutto, delle sue idee quasi nulla, ma una spinta così potente a parvenir si serve senza scrupolo di qualunque idea – e già ne ha cavalcate di aberranti. Davvero ci sono professori emeriti, grand commis, mandarini e mandarinetti che in una tempesta come questa, in cui le onde da cavalcare vengono tutte dall’estrema destra, punterebbero su un’incognita che offre solo una fedina penale pulita, un sorriso smagliante e una divorante ambizione? Già me li vedo, tra qualche anno, a cantare in coro: “Se non ci conoscete cambiate spazzolino, noi siamo i Cinque Stelle di Rocco Casalino”.
Il Foglio, 2 dicembre 2017
Calvino a Scalfari, 7 marzo 1942: «La faccenda del vivaio giovanile non è molto chiara. Scrivi meno balle, racconta fatti e ambienti e persone. Adesso il giornalino non è più del vivaio, è dell’Azione Cattolica. Che casino! […] Quando la finirai di pronunciare al mio cospetto frasi come queste: “tutti i mezzi son buoni pur di riuscire” “seguire la corrente” “adeguarsi ai tempi”? Sono queste le idee di un giovane che dovrebbe affacciarsi alla vita con purezza d’intenti e serenità d’ideali?»
eliaspallanzani
dicembre 11, 2017 at 10:18 am