Guido Vitiello

I lettori e il diritto alla noia

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Già che sono in vena di ripescare cose dimenticate dalle grandi riviste del passato, ecco una bella pagina apparsa su Tempo Presente quasi cinquant’anni fa, nel 1962. È tratta dagli Appunti sul costume letterario di Giovanni Russo, a metà tra il diario e il simposio tra amici e colleghi. Dei suoi interlocutori Russo non fa mai il cognome, ma certi nomi (uno a caso: Ennio) lasciano poco spazio al mistero. Peraltro fu proprio Giovanni Russo, anni fa, a ricordare che il criterio del nome serviva a Flaiano per distinguere tra i veri amici e quegli insopportabili adulatori che ostentano familiarità immaginarie: “Sono quelli che mi chiamano Ennio”, diceva pressapoco; “gli amici, invece, mi chiamano Flaiano”.

L’argomento della discussione è qui la Noia, se abbia o meno “il diritto di assidersi al fianco della Musa”, e soprattutto quel singolare pudore di critici e recensori nel farne un metro per giudicare il valore di un libro. Una reticenza che, in fin dei conti, tradisce una visione della lettura come pratica tetra e puritana, i cui piaceri vanno cautamente dissimulati.

Lunedì 2 – (…) Luigi, che si occupa saltuariamente di letteratura, cambia discorso: “Non so se una mia idea sia accettabile dal punto di vista estetico – dice – ma ritengo che la noia dovrebbe essere presa in considerazione nelle recensioni letterarie come un importante elemento del giudizio. Per esempio, si leggono lodi del romanzo di Mastronardi Il maestro di Vigevano, scritto in maniera oscura e contorta, infarcito di tetre descrizioni e pieno di discorsi mediocri dei quali, purtroppo, l’autore sembra, almeno nel libro, intellettualmente partecipe. Non si dice però una parola sulla noia che la lettura di questo libro procura. Altrove i critici esaltano un romanzo di A. o di R., ma sempre si astengono dall’avvertire se sia o no noioso. Mi domando: i critici non sentono il morso della noia? Che cos’è la noia se non il rinsecchirsi, il rinchiudersi, lo sfiorire nell’animo del lettore della disponibilità a sentire l'”opera d’arte”, a comunicare con i personaggi, a godere della loro vita artistica? La mancanza di severe reprimende alla noia da parte degli autorevoli critici è quanto mai dannosa. Perché da tali tribune non si esortano i nostri tormentati scrittori joyciani o robbe-grillettiani a essere anche meno noiosi e meno presuntuosi nell’annoiare? Facciamo un esempio. I libri di Salinger e Updike sono “confezioni” che odorano di prodotto in serie (e, se negli Stati Uniti le nuove leve sono solo queste, non c’è da essere allegri sulle prospettive della narrativa in quel paese che ci esportò trent’anni fa grandi esperienze, tramite Pavese e Vittorini), tuttavia insegnano sempre una cosa ai nuovi scrittori italiani: questi americani sono divertenti, hanno il senso dell’umorismo, conoscono il gusto del ridicolo che è poi, da Gogol a Tolstoi, una misura della capacità artistica. I nostri critici, quando parlano di questi autori, preferiscono riferirsi ai loro fini sociali e moralistici, dando così ad intendere agli scrittori o aspiranti scrittori che la Noia abbia il diritto di assidersi al fianco della Musa”.

(Giovanni Russo, Appunti sul costume letterario, Tempo Presente, Luglio 1962)

Written by Guido

novembre 23, 2010 a 5:05 PM

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