Posts Tagged ‘Ennio Flaiano’
Fratelli weimariani, la fine è vicina (Mani bucate, 30)
Pace e bene a tutti da Padre Weimariano da Torino! Non l’avrei mai detto, ma mi sono ritrovato a fondare un ordine conventuale. Per ragioni di budget è un ordine mendicante, anche se le nostre mani bucate hanno poco a che fare con le stimmate. Noi frati weimariani preghiamo giorno e notte per scongiurare l’apocalisse della Repubblica, di cui vediamo tutt’intorno i segni – i prodigi dei falsi profeti, la grande apostasia della classe dirigente e della borghesia imbelle, la Bestia con il diadema delle cinque stelle, il principe ucraino che si fa tatuare il suo marchio e si mette a blaterare in lingue strane di un “referendum informale” sull’euro, i terremoti, gli ulivi avvelenati dalla Xylella giudiziaria. E ai risolini dei miscredenti – che ci vedono come trappisti politici, intenti a rimuginare la giaculatoria del memento mori mentre passeggiamo a testa china nel chiostro – rispondiamo con il motto di Ennio Flaiano, inciso sullo stemma dell’ordine: “Nel nostro paese la forma più comune di imprudenza è quella di ridere, ritenendole assurde, delle cose che poi avverranno”. Leggi il seguito di questo post »
Mani bucate
I proventi di questa rubrica saranno sperperati fino all’ultimo centesimo su eBay. Lo schema, antico e sperimentato, è lo stesso di Penelope: di giorno faccio un po’ di soldi scrivendo, di notte me ne disfaccio inseguendo cimeli, stravaganze, riviste e libri rari. La settimana successiva ne do conto ai lettori, per quel minimo di accountability a cui devono piegarsi anche i capricci, con la crisi tutt’intorno e il pareggio di bilancio in Costituzione. Ma sono capricci, poi? Buona parte dei discorsi che si sentono in giro suonano come rimasticature di discorsi già fatti (meglio, per giunta) venti, trenta o cent’anni prima; e nulla giova più, per infilarsi nel dibattito, che rovistare nelle attrezzerie di scena di spettacoli dismessi, negli arsenali di battaglie già combattute. Leggi il seguito di questo post »
Tutti dentro
Andiamo, non pretenderete mica che io prenda sul serio una fiction in cui Marcello Dell’Utri cita a memoria l’anonimo medievale della Nube della non conoscenza nel bel mezzo di una riunione di Publitalia? In cui Piercamillo Davigo, con due occhialoni da ragionier Filini e una vocina santimoniosa, sussurra al giovane poliziotto intemperante che “noi non prendiamo scorciatoie, noi siamo la legalità”? In cui Accorsi, pubblicitario ex sessantottino, improvvisa uno spot elettorale declamando una pagina di Petrolio di Pasolini, dono dello stesso Dell’Utri? Grazie al cielo 1992 è finita, e possiamo tornare a occuparci di cose serie. Ora, com’è noto, in Italia l’unica cosa seria è la commedia.
Apro Il cervello di Alberto Sordi (Adelphi), versione espansa di un vecchio libro di Tatti Sanguineti sullo sceneggiatore Rodolfo Sonego, e corro alle pagine che riguardano Tutti dentro, il film del 1984 che ha fama di essere una profezia di Mani pulite. Se qualcuno non lo ha visto, glielo rovino io: Sordi è un magistrato che eredita una grande inchiesta sulla corruzione da un anziano consigliere che gli raccomanda, citando Talleyrand, pas trop de zèle. Ma lui di zelo ne ha molto, spicca centinaia di mandati di cattura, mette dentro politici, faccendieri, imprenditori, massoni, uomini di chiesa e di spettacolo, finché il suo metodo fondato sul sospetto generalizzato non gli si ritorce contro, lo trovano a cena con due indagati e finisce in manette. Leggi il seguito di questo post »
Il critico Ostrogoto. Berardinelli e la nuova piccola borghesia
Chi ha in simpatia il marziano a Roma di Flaiano, lo yankee alla corte di re Artù di Mark Twain e altri intrusi, non trascuri l’Ostrogoto nel paese dei letterati immaginato dall’abate Rosmini: “Se venisse tra di noi per vedere i nostri costumi un uomo di qualche remota contrada ancor barbara, e s’invogliasse di conoscer la tempera di questa classe che sente celebrar tanto di letterati, (…) ben credo che a sentir gli sciaurati giudizi che portano essi stessi gli uni degli altri, e la viltà in cui si hanno scambievolmente, egli dovrebbe dire seco medesimo: or è dunque questa la gente per la quale questo paese si mette sopra del nostro?”. Così si legge nel Galateo de’ letterati (1828), un piccolo codice dell’urbanità letteraria fondato sulla premessa che quanti scrivono galatei per gli altri uomini (il bersaglio è Melchiorre Gioja) non ne osservano, disputando tra di loro, i precetti. Leggi il seguito di questo post »
La suocera di Zapatero e la morte della satira
Sembrava un problema italiano, ed è un problema mondiale. Non sarebbe la prima volta (il fascismo, la mafia), anche se in questo caso la faccenda, direbbe Flaiano, è grave ma non è seria. In breve, non esistono comici di destra, e quando esistono non fanno ridere: è la vecchia contrapposizione tra i geniacci come Corrado Guzzanti e lo sfottò compiacente del Bagaglino, il cui storico leader, Pippo Franco, cantava non per caso «America, ma che ce vengo a fa’?». Un libro della politologa Alison Dagnes, A Conservative Walks Into a Bar: The Politics of Political Humor, rivela che gli Stati Uniti hanno lo stesso problema. I conservatori a quanto pare non sanno far ridere, e la satira è legata a filo doppio ai liberal. Come mai? Dagnes la prende molto alla lontana (per natura «il conservatorismo è più conformista e lento nel criticare i potenti») ma la risposta, almeno in Italia, non è ideologica, è psicologica: per prendere (e prendersi) in giro bisogna esser sicuri di sé, se non proprio coltivare il complesso dei migliori e della superiorità antropologica, e una destra che vive di risentimenti, sensi d’inferiorità culturale e lamentele di ostracismo non può aspirare a ottenere una risata che sia una. Che può fare, allora? Allevare una nidiata di comici di destra sarebbe perdente, come opporre il rock cristiano a Mtv. Ma attenzione, i conservatori del pianeta farebbero bene a puntare i riflettori su questo piccolo paese dell’Europa meridionale, dove un ometto alquanto istrionesco, che in quindici anni a conti fatti non ha combinato granché, almeno una vittoria l’ha ottenuta, con grande danno per le nostre serate: neutralizzare la satira avversaria. Come ha potuto tanto? È semplice: diventando egli stesso una caricatura, un’iperbole vivente, la copia iperrealista di sé stesso. Come si fa a «castigare ridendo» quando il castigato ride come un pazzo? Uno dopo l’altro, sono caduti tutti: Sabina Guzzanti si è trasformata in una maestrina petulante e incattivita, Daniele Luttazzi da plagiario di talento è diventato un piccolo comiziante, e così via. Sopravviveva, secondo alcuni, la leggerezza di Benigni, ma non per molto: dopo quel colpo d’ala comico che fu «la nipote di Mubarak», il meglio che seppe inventarsi fu Rosy Bindi «suocera di Zapatero». Tutto qui? Una mera permutazione dei termini, perché non si poteva parodiare una realtà già parodistica. La lezione italiana è chiara: se proprio non riescono a far ridere, l’unica speranza dei conservatori è fare i pazzi.
Articolo uscito su IL di ottobre 2012 con il titolo Se la destra non ride la sinistra non c’è
Elémire Zolla, scrittore (1926-2002)
Fanno festa Berlicche e Malacoda, i diavoli tentatori di C.S. Lewis, quando un cristiano in preghiera dà prova di credere che il Padreterno sia collocato in qualche punto nello spazio, diciamo pure “su in alto, all’angolo sinistro del soffitto della camera da letto”, o meglio ancora dov’è appeso il Crocefisso: è il segno certo che sta adorando un idolo, un fantoccio mentale, ed è tanto di fatica satanica risparmiata. Ma finché si resta ancorati al mondo di quaggiù, piaccia o meno, la gravità è la nostra signora, le coordinate spaziali la nostra condanna. Sarà pur vero che ciò che sta in alto è come ciò che sta in basso, come insegna la tavola smeraldina; tuttavia quando si è bassi e piccini, e ciò che sta in alto sta davvero in alto, e per giunta non si dispone di uno scaletto, non c’è sapienza ermetica che possa sottrarci a un sentimento di soggezione. Così, quando da bambino me ne stavo a fissare per ore la biblioteca paterna, c’era un libro che più degli altri m’incuteva timore, collocato in uno scaffale abbastanza alto perché io non potessi acciuffarlo, ma abbastanza basso da permettermi di leggere, sul dorso un poco ingiallito, un autore e un titolo dal suono arcano, che al solo scandirli a fior di labbra istigavano un terrore reverenziale: Elémire Zolla, Eclissi dell’intellettuale. Da dove veniva, quel nome altero, a che lingua apparteneva, e come si doveva pronunciarlo? E quali idee si agitavano sotto quel titolo cupo, perentorio? Leggi il seguito di questo post »
La sai quella del francese al Polo Nord?
Com’era quella dell’italiano, del tedesco e del francese al Polo Nord? Probabilmente non esiste, ed è meglio così, ma non è azzardato supporre che il carattere nazionale, al pari di certe sostanze chimiche, manifesti le sue proprietà solo in condizioni termiche estreme. Nei paesaggi più inospitali, diceva Flaiano, l’italiano rivela la funzione assegnatagli nel grande disegno della creazione, che è quella di togliere alla natura la sua solennità: “Prendete il Polo Nord: è abbastanza serio preso in sé. Un italiano al Polo Nord vi aggiunge subito qualcosa di comico, che prima non ci aveva colpito. Il Polo Nord non è più serio”. Due connazionali s’incontrano tra i ghiacci artici – “Dottore!” “Ragioniere!” – e il sublime iperboreo va a farsi benedire. I tedeschi invece, basta dare un’occhiata al Mare di ghiaccio del pittore romantico Caspar David Friedrich per convincersene, a quelle temperature danno il meglio di sé, anzi si può supporre che sia stato loro affidato il ruolo complementare: togliere alla natura ogni sospetto di comicità. E i francesi? “Tutti eunuchi, o molto o poco”, diceva Alfieri in un perfido epigramma del Misogallo, e in effetti lo stereotipo li vuole eleganti fino alla leziosità, eloquenti fino alla chiacchiera, leggeri fino alla frivolezza: difficile che resistano al gelo boreale. Leggi il seguito di questo post »
I lettori e il diritto alla noia
Già che sono in vena di ripescare cose dimenticate dalle grandi riviste del passato, ecco una bella pagina apparsa su Tempo Presente quasi cinquant’anni fa, nel 1962. È tratta dagli Appunti sul costume letterario di Giovanni Russo, a metà tra il diario e il simposio tra amici e colleghi. Dei suoi interlocutori Russo non fa mai il cognome, ma certi nomi (uno a caso: Ennio) lasciano poco spazio al mistero. Peraltro fu proprio Giovanni Russo, anni fa, a ricordare che il criterio del nome serviva a Flaiano per distinguere tra i veri amici e quegli insopportabili adulatori che ostentano familiarità immaginarie: “Sono quelli che mi chiamano Ennio”, diceva pressapoco; “gli amici, invece, mi chiamano Flaiano”.
L’argomento della discussione è qui la Noia, se abbia o meno “il diritto di assidersi al fianco della Musa”, e soprattutto quel singolare pudore di critici e recensori nel farne un metro per giudicare il valore di un libro. Una reticenza che, in fin dei conti, tradisce una visione della lettura come pratica tetra e puritana, i cui piaceri vanno cautamente dissimulati. Leggi il seguito di questo post »
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