Profezie cinematografiche
La storia italiana, per parafrasare Marx, si presenta sempre due volte: la prima volta come film e solo la seconda come storia vera e propria. L’ultima dimostrazione di questa legge ferrea è la contesa sorta giorni fa intorno alla messa in onda della sequenza finale del Caimano di Nanni Moretti – annunciata a Parla con me della Dandini, bloccata dalla Rai, trasmessa infine da Piroso a Niente di personale. «Sembra che il finale del Caimano sia esattamente il Berlusconi di questi giorni», ha detto Moretti a Eugenio Scalfari su Repubblica di sabato scorso. E a dire il vero quei sette minuti di un Cavaliere nerissimo che dopo la condanna accusa i suoi accusatori e scatena una rivolta popolare davanti al Palazzo di Giustizia avevano ricominciato a circolare, in rete, già dopo la bocciatura del Lodo Alfano e la sfuriata contro la Corte costituzionale egemonizzata dai comunisti. Ma il Caimano non è l’unico déjà-vu di questi giorni. Tre settimane fa, per esempio, nella puntata dell’Infedele dedicata al caso Ruby, alle spalle di Gad Lerner erano appese due locandine di vecchi film, presentati come antenati (ciascuno a suo modo) dei festini di Arcore: Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini, e L’infermiera nella corsia dei militari, una commedia sexy di fine anni Settanta con Lino Banfi e Nadia Cassini.
Non è nuova, questa dote profetica del cinema italiano: da Colpo di stato di Luciano Salce a All’onorevole piacciono le donne di Lucio Fulci, lunga è la lista dei «film premonitori» degli ultimi trent’anni di vita nazionale. Chi vuol raccontare liberamente la storia, a quanto pare, è costretto ad anticiparla; una volta accaduta, infatti, le cose si fanno più complicate. Nel 1975 Todo modo di Elio Petri prefigurava, ancor più del romanzo di Leonardo Sciascia a cui era ispirato, il caso Moro e il disfacimento della Democrazia cristiana. E una commediola di Alberto Sordi di metà anni Ottanta, Tutti dentro, sembrava annunciare le inchieste milanesi del decennio successivo. Sordi impersonava un magistrato – a metà tra la figura del funzionario integerrimo e quella del pm d’assalto – che scatenava una retata tra politici, affaristi, finanzieri e perfino uomini di chiesa. Finiva però vittima del suo stesso zelo, e si ritrovava alla sbarra come imputato.
Ma il vero prologo cinematografico di Mani pulite è senz’altro Il portaborse di Daniele Luchetti, sul quale Rubbettino ha appena pubblicato un volume a cura di Italo Moscati, Il portaborse vent’anni dopo, che raccoglie saggi, interviste, recensioni e documenti. Nanni Moretti, qui in veste di attore, faceva la parte di un ministro socialista di nome Botero (a segno di un potere bulimico, come le figure straripanti del pittore colombiano), ispirato apertamente a Craxi, De Michelis e Martelli; e Silvio Orlando era un professore di lettere dall’animo candido che per sbarcare il lunario ne diventava appunto portaborse e ghost writer e che poi, illuminato da un giornalista d’opposizione, si ribellava e finiva per distruggere a colpi di mazza da golf l’automobile di lusso che il ministro gli aveva regalato. «È un film per bambini, un cartone animato in cui tutto il bene sta da una parte, quella della società civile, e il male dall’altra, nella politica», commentò all’epoca il vicesegretario socialista Giulio Di Donato, che aveva accettato di andare a una proiezione del Portaborse insieme a Barbara Palombelli di Repubblica. Non aveva tutti i torti, come critico. Ma come politico, i mesi successivi si sarebbero incaricati di smentirlo.
Certo, questo talento profetico non è una specialità del cinema italiano. L’11 settembre 2001, davanti alla diretta del crollo delle torri, una delle domande ricorrenti era: in quale thriller fantapolitico abbiamo già visto questa scena? La differenza è che, tempo cinque anni, Oliver Stone aveva girato World Trade Center, Paul Greengrass United 93, e l’11 settembre era diventato, anche al cinema, una grande narrazione collettiva. Paesi, storie e soprattutto industrie incomparabili, non c’è dubbio. Ma resta il fatto che in Italia il cinema sa prevedere le cose meglio di quanto non sappia raccontarle una volta avvenute. C’è stato Todo Modo, ma poi abbiamo dovuto aspettare quindici anni e il massimo che abbiamo ottenuto, sul caso Moro, è l’ambiguo simbolismo di Buongiorno, notte di Bellocchio. A trent’anni dalla stagione degli anni di piombo non è neppure immaginabile, in Italia, un film “epico” e popolare come il tedesco La banda Baader-Meinhof di Uli Edel. E quanto al tracollo della prima repubblica, il cinema lo ha anticipato in molti modi ma non ha potuto, saputo o voluto raccontarlo.
Gli ostacoli politici e i vincoli produttivi pesano moltissimo, certo; ma pesa altrettanto la cronica incapacità italiana di pervenire anche solo a un grado minimo di narrazione condivisa della storia nazionale. Nella serie tv Boris (a cui dobbiamo non poche intuizioni profetiche) una fiction su Machiavelli è sospesa perché «la Repubblica fiorentina è una ferita ancora aperta nella coscienza del nostro paese». Con queste premesse, chissà quanto occorrerà attendere per un grande film su Mani pulite (il primo a ipotizzarne uno era stato, già nel 1993, Carlo Vanzina). Proprio il mese scorso Michele Placido ha annunciato che vuole girare un film sulle inchieste milanesi, ma ha anche detto che sarà costretto a farlo in Francia, perché con Medusa o Rai Cinema non c’è speranza. Staremo a vedere. Nel frattempo, la narrazione popolare di quella stagione è affidata al teatro itinerante di Marco Travaglio, che con spettacoli come Promemoria racconta la sua versione disneyana fatta di Bande Bassotti e Commissari Basettoni.
Tutto fa supporre che con il periodo berlusconiano giunto al suo epilogo le cose saranno altrettanto difficili. Non ultimo perché il Cavaliere è già stato, per vent’anni, il film di sé stesso: un politico iperrealista. Non è un caso, forse, che il Caimano sia un film su Berlusconi e al tempo stesso sull’impossibilità di fare un film su Berlusconi. È un’altra profezia che potrebbe avverarsi.
Articolo uscito sul Riformista il 18 febbraio 2011
l’italia è incapace di raccontarsi, tuttavia aggiungerei questo: è incapace di raccontarsi se non ricorrendo al filtro della commedia, genere che forse abbiamo preso a frequentare proprio per corrispondere alla necessità di raccontare a noi stessi almeno qualcosa di noi. per esempio l’8 settembre di “tutti a casa” (..i tedeschi si sono alleati con gli americani!).
di moretti invece do una lettura antimorettiana.
questa scena di straordinario acume gazzettiero che scalfari giudica profetica non è il finale de il caimano, ma la scena finale del film di una giovane regista, di cui il film di moretti narra la difficile gestazione. di questo film nel film un onesto critico potrebbe solo ridere cogliendo l’occasione per ribadire che il teatro parlato non è cinema e che la cronaca giornalistica filmata, come in questo caso, è ancora peggio del teatro filmato. ovviamente non è difficile prevedere che nella realtà un film come quello, se fosse prodotto, e in questo il caimano è profetico, sarebbe salutato come capolavoro e il suo autore osannato…per la felice disperazione dello squattrinato regista di genere che lo ha prodotto (2 scene non presenti ne il caimano che avrebbe fatto de il caimano un film molto migliore)
pasquale logatto
febbraio 18, 2011 at 4:39 PM
Berlusconi è un film sull’Italia lungo vent’anni. Raccontarlo significherebbe fare metacinema.
dicksick
febbraio 18, 2011 at 8:38 PM
Io credo che parlare di “profezie” sia fuorviante, perché si sottovaluta l’impatto che le opere cinematografiche hanno avuto sulla realtà e sul nostro modo di percepirla. Nel caso di Salò, ad esempio, è evidente che ha plasmato il nostro immaginario sul potere, e che molte ricostruzioni giornalistiche e costruzioni giudiziarie della vicenda Ruby ne risentono. Le commedie erotiche degli anni Settanta, da parte loro, hanno sicuramente influenzato le fantasie di politici grandi e piccoli.
Per quanto riguarda Todo Modo, credo plausibile immaginare che abbia addirittura influenzato le BR… Todo modo non è una profezia innocente che riproduce ex ante la realtà, ma un evento che la produce, un tassello fondamentale della storia delle rappresentazioni che portarono a quel mistero tremendo che è la passione di Aldo Moro. È soltanto un’ipotesi: Elio Petri, mandante morale? Plausibile, se lui stesso dovette dichiarare, in seguito, che “Todo modo non era certo un invito a uccidere Moro” e che “No, il film non era terroristico”. Eppure non riesco a togliermi dalla testa che sia stato nella sala oscura d’un cinema che si é deciso di condannare a morte il presidente della Democrazia Cristiana.
Esc
febbraio 19, 2011 at 5:17 PM