Le puttane di Kant (e l’Elogio futurista della prostituzione)
Il professor Eco fa spesso le ore piccole (ma perché legge Kant). Poi, a notte fonda, ripone sul comodino la Grundlegung zur Metaphysik der Sitten e scivola nel sonno. E chissà quali sogni selvaggi sogna allora, il professor Eco. Kant e l’ornitorinco che si avventano l’uno sull’altro, in fregola, in una battaglia d’amore in sonno, una hypnerotomachia; perché se proprio non può esimersi dal sognare – di per sé una sconveniente obnubilazione delle facoltà critiche – che almeno sian sogni in edizione aldina e, ove possibile, ornati di xilografie allegoriche rinascimentali. Di certo, da buon kantiano, il professor Eco si preclude di sognare la Cosa in sé, l’inattingibile Ding an sich che crepita sotto il velame delle apparenze. Così inattingibile che ci si domanda perfino se esista, e soprattutto cosa diavolo sia, quell’oscuro oggetto del desiderio. Un filosofo la cui inesistenza è invece assodata, Jean-Baptiste Botul, ha dato la sua risposta in una conferenza mai tenuta a Nuova Königsberg, colonia dei kantiani del Paraguay: «La Cosa è il Sesso. È evidente. Non possiamo conoscere la Cosa in sé, ci avverte Kant. Non ne siamo capaci, ma soprattutto non ne siamo autorizzati» (La vita sessuale di Immanuel Kant). E poi: «È noto il rovescio di questo genere di ascetismo: il bordello. La Verità che si voleva nuda attraverso l’esperienza e la speculazione, la si contemplava, alla fine, tra le gambe della prostituta, professionista della “Cosa in sé”». La Cosa in sé sarebbe dunque quella cosa, che il kantiano si affatica a raggiungere brancicando tra le sottane della realtà. Perché questo è, in ultimo, il suo supplizio di Tantalo: la Cosa gli appare sempre tegumentata dalle apparenze, diciamo pure dalla lingerie del mondo fenomenico.
E allora, già che si discute di Kant e di biancheria femminile: «Immolo un’ecatombe di moralisti a chi mi sa dire cosa fu prima: l’imperativo categorico o le mutandine da bagno». L’uomo che ha scritto queste chiaroveggenti parole, il 1 febbraio 1913 sulle pagine della rivista futurista «Lacerba», si chiamava Italo Tavolato. Conosceva assai bene Immanuel Kant, per averlo tradotto su incarico del suo mentore Giovanni Papini, che aveva fondato il quindicinale insieme a Soffici. E ancor meglio conosceva i lupanari di Firenze, a via dell’Amorino, sede secolare di casacce per scapoli e militari prima che vi calasse il plumbeo coprifuoco della Merlin. Aveva, allora, poco più di vent’anni: un ragazzone squattrinato approdato a Firenze dalla Trieste austroungarica, studente di filosofia fuori corso ossessionato da Nietzsche e da Otto Weininger, che divideva con l’anziana madre una casa d’affitto in viale Volta. Tra l’imperativo categorico e le mutandine da bagno, Tavolato non ebbe indugi. E quel primo articolo di febbraio, Contro la morale sessuale, non era che la prova generale del suo intervento più incendiario, un’irresistibile cicalata che gli costò due mesi di lavoro, un processo per oltraggio al pudore e un anno buono di notorietà: l’Elogio della prostituzione, apparso su «Lacerba» il 1 maggio dello stesso anno. Attorno a quel corpo del reato si dipanò «una storia di letterati, avvocati, aspiranti dandies e aspiranti superuomini, dame lussuriose, poeti e puttane»: così scrive Sebastiano Vassalli, che quella storia ha dissotterrata e raccontata in un romanzo-saggio del 1986, L’alcova elettrica, ricostruendo tutto il ricostruibile e affidando il resto all’invenzione.
Questa favola di una stagione lontana, lettore, non dimostra un bel niente: se proprio vuoi accomodarla all’attualità, sarà a tuo rischio e pericolo. Puoi però farne buon uso: «Dato che coscienza s’identifichi con moralità», ragionava Tavolato, «il perfetto moralista non dovrebbe nemmeno dormire, perché anche il sonno toglie la coscienza. Siccome, però, ognuno sente il bisogno di dormire, e se non dorme impazzisce e muore, è evidente che moralità e vita son termini inconciliabili, e che il perfetto moralista non esiste». Ecco, questa favola può servire a rimboccare le coperte del moralista e a metterlo a nanna; e se non lo guiderà al sonno del giusto, il meno che se ne può dire è che è più divertente di Kant.
Metter piede in un bordello è un azzardo dalle conseguenze imponderabili, forse perché in ogni puttana permane qualcosa dell’antica ierodula, della prostituta sacra e iniziatrice. Dal suo abbraccio si esce mutati, questo è certo, ma mutati come? Non c’è modo di saperlo in anticipo. Quando il postribolo era ancora una benemerita istituzione e una palestra alla vita adulta, il buon padre che portasse il proprio rampollo a smaliziarsi tra braccia (e gambe) esperte doveva mettere in conto qualunque esito. Il signorino poteva uscirne atterrito o turbato, preda di febbri e deliri d’amore, o sbucar fuori trionfante, maledicendo la mamma e la nonna, o perfino affetto dal mal francese. Il giovane filosofo Italo Tavolato a quanto pare ne uscì bene; ne uscì, per usare un magnifico conio di Gadda, «dekierkegaardizzato», e anzi si affrettò a inserire Kierkegaard tra Diogene, Rousseau e molti altri in una lista di «onanisti» del pensiero, spiriti rimuginanti e affatturanti, dal cui incantesimo bisognava sciogliersi, e di corsa, se si aspirava a una vita sana. Le languide fantasime dell’erotismo decadente gli si sfecero dinanzi agli occhi assieme alle più terrestri e dimesse Signorine Felicite, quel tanto che bastava per mostrargli «quanto le carni del mestiere siano più belle delle maritate polpettone».
Non conosceremo mai il nome della buonadonna che lo svezzò, ma è certo che Tavolato si tenne ben stretto a quell’illuminazione postribolare, tanto da volerla divulgare ai profani. Il suo Elogio sconfina qua e là nell’apostolato: «Non lasciarti adescare da Menica dal sorriso cattolico né da Giuseppa, la povera e per di più onesta sartina. Lulù ti amerà; per una notte o per la vita; e la tua primavera non sfiorirà. Ma se sfiorirà; se vampiri morali ti suggeranno il sangue e fantasmi sentimentali e cerebrali disturberanno le tue notti; allora, fratello, non accusare la sessualità: bensì i veri responsabili delle tue angosce, i tuoi suggestionatori: Cristo, Kant e la letteratura».
A dirla tutta, dalla lue della cattiva letteratura la sua Lulù non lo guarì né punto né poco. Al giovane Tavolato erano rimasti incollati tutti i vizi di una stagione delle nostre lettere che quanto più farneticava di azione tanto più si mostrava libresca: quel niccianesimo e superomismo gesticolante, tutto italiano, da melodramma o da operetta («Spargo petali di rosa sul cammino donde verrà l’Anticristo che finalmente asservirà l’etica alla voluttà»), così come quella mescolanza di sacro e profano, sensualità e liturgia che Baudelaire lasciò in pasto a una schiera di cattivi imitatori: alla puttana era così dedicata una litania sul calco di quelle alla Beata Vergine, che procedeva sgranando un rosario di appellativi («Salve sincera puttana!»; e poi: formosissima, comoda, impudica, lontana, stupida, artificiosa). Ma che importa? Lasciamo queste remore ai dipartimenti di italianistica, e arrendiamoci come in un dormiveglia alla splendida canaglieria di questo Elogio della prostituzione.
«Tutte le morali variano, mutano, decadono, spariscono; la prostituzione resta. Perciò, se durata è indice di valore, la prostituzione è superiore all’etica». La puttana non mente e non aggioga. È superiore non solo alla legge morale, ma anche agli imbonimenti delle ideologie, alle promesse dilatorie dei chierici: «Tizio, ebreo, fondatore della religione cristiana, vi promette rapimenti mistici e quartieri non suoi, in cielo; quale ricompensa piegherete sotto la sua legge il vostro sentimento e il vostro pensiero. Caio, tedesco, filosofo, tipo vanitoso, epigone di Cristo, inventore dell’imperativo categorico (= trasfigurazione della sacra colomba cristiana), vi promette vera pace della coscienza e autentica umanità; quale ricompensa immolerete sul suo altare le possibilità della vostra vita. Zazà, puttana, non promette nulla e mantiene. Ricompensa: dieci franchi».
Tra Tizio e Caio, Cristo e Kant, conviene dunque imboccare la via di Zazà, che poi corrispondeva, sulla pianta di Firenze, a via dell’Amorino. È la via regia alla «vita ridondante e lussureggiante», dinanzi alla quale capitolano gli insipidi, i morigerati, gli asceti frigidi e schifiltosi, le bestiole troppo ammansite, le damine intrappolate nel corsetto di una virtù triste e risentita: «I tentativi di surrogare la prostituzione con religiosità, cibo vegetariano, antialcoolismo, opuscoli morali, aumento di salario, ecc. ecc., sono tutti falliti. La puttana resta. Varia di stile; diventa mondana, da sacra che era; si chiama etèra; entra nel ditterione; fa la cortigiana; vien confinata nella maison de tolérance; si muta in bagascia, mantenuta, donna allegra, donna perduta, farfallina, cocotte; la trovi per istrada e nei palazzi, nei lupanari, nei bordelli, nei casini, nelle case di ricreazione – muta di stile, d’abito; l’essenza resta: la puttana è eterna».
Non praevalebunt, dunque. Crolli pure il mondo: le puttane restano. «Tutte le anime pure tributano ammirazione, rispetto e riconoscenza alla forza elementare della prostituzione». Le anime pure, beninteso, per le quali tutto è puro; ma già che ogni cosa è immonda per gli immondi, «la cultura, la putrida baldracca che caccia nell’abominio le puttane e ciò nonostante occhieggia col gazzettiere, schiavo di un direttore e schiavo di un pubblico, quindi due volte prostituto; la megera puritana che vuol appuzzare il mondo con tanfo di talamo e che pur sempre è pronta a scosciarsi davanti a ogni professore o prete o deputato; la nostra cultura, dico, misura le femmine sul metro dei valori intellettuali dell’uomo e la forza a prostituire i suoi caratteri snaturandoli in maschia; e mentre nella cultura ellenica e in quella del rinascimento poeti e filosofi trovavano fonte d’ispirazione e di pensiero nella puttana, i nostri snobs culturali cercano galante sollazzo presso la letterata. Però, questa nostra pereccellentissima cultura, papessa santificatrice della mediocrità per vigliacca paura del tuffo nell’istinto e del pericoloso rimbalzo verso la genialità – questa decrepita bagascia non continuerà più a lungo a trasfondere nelle nostre vene il suo sangue di piattola; c’è ancora chi vuole la vita nella sua pienezza, c’è chi l’ama nelle sue posizioni e nelle sue negazioni; e ardono ancora fiamme d’anime non soffocate dai preservativi della moralità».
Sulla goliardata di Tavolato si sarebbe avventata, di lì a poco, tutta una buoncostume di chierici, gazzettieri e uomini di legge. «Lacerba», racconta Vassalli, era andata a ruba; a maggio Vallecchi ne aveva fatte stampare diecimila copie, che diventarono ventimila già all’inizio dell’autunno. Non occorrevano chissà quali doni di chiaroveggenza per aspettarsi l’arrembante offensiva dei virtuosi. Tavolato li aveva sentiti venire di lontano, scalpitanti, prima ancora di comporre il suo elogio: «Vengono d’Oriente e d’Occidente, e di Settentrione e di Mezzodì», aveva scritto nel suo primo articolo, Contro la morale sessuale. «Popoli di moralisti, guidati dalla volontà di scandalizzarsi. Eserciti di beghine con la missione d’arrossire. Dietro ogni uscio sta un fiutone, dietro ogni siepe un poliziotto. Un eroe irrompe nella tua camera da letto e ti strappa di dosso le lenzuola, per accertarsi se i tuoi appetiti son legittimi. Qua un professore urla: Per la specie! Là dieci zitelle muoiono di fame erotica. Ecco un masturbatore che dà del neo-maltusiano a un pederasta; ecco un satiro tredicenne che stupra una minorenne di trentacinque anni. Il mondo è pieno di oscenità, sozzure e laidezze».
Qualche settimana prima di lanciare l’Elogio, in un suo Credo immoralista composto come Glossa sopra il Manifesto futurista della lussuria della parigina Valentine de Saint-Point, Tavolato aveva già individuato i luoghi da dove sarebbero provenuti gli strali: chiese e redazioni, insolitamente appaiate. «Abbia l’uomo il diritto di amare chi vuole e come vuole; e credo, credo, credo che una sentina di vizi valga cento chiese e mille redazioni, credo che il coito sia azione intellettualmente e moralmente superiore alla creazione di una nuova etica, con tutta la forza dell’anima mia credo: nel dovere di non impoverire nella suggestione morale; nella comunione carnale che vivifica lo spirito; nella remissione delle virtù, nella vita terrena. Amen».
Chiese e redazioni. Fu infatti quasi per certo un giornalista, Ferdinando Paolieri – che con gli scrittori Giuliotti e Tozzi aveva dato vita alla rivista arci-cattolica «La Torre», baluardo eretto contro la depravazione del mondo moderno – il delatore che segnalò al Regio Tribunale l’Elogio della prostituzione di Tavolato. Gli fece buon gioco l’amicizia del sostituto procuratore Emilio Albino, pubblico moralizzatore pure lui, che volle procedere contro Tavolato per offesa al pudore, articolo 339 del codice penale. Ma la storia del processo, che si celebrò a porte chiuse e contò tra i testimoni di difesa, oltre a Papini, Filippo Tommaso Marinetti, è meno interessante di quanto si potrebbe sperare. Basterà dire che il 10 gennaio 1914 il Tribunale assolve gli imputati perché «il fatto non costituisce reato». Una salva di «Viva il futurismo!» accoglie la sentenza, poi confermata in appello. Incombe, intanto, la Grande guerra. Tavolato parte per il fronte, e ne torna, nonché dekierkegaardizzato ulteriormente, anche depapinizzato. Ancora qualche anno e, fascismo regnante, diventerà un agente dell’Ovra, la polizia segreta, con il nome in codice Tiberio. Ripudierà gli anni fiorentini.
Di Tavolato e di questa favola senza morale nessuno ricorda più nulla. Le puttane restano, però. Il cristiano le vede tuttora come maddalene da riscattare; il buon illuminista, per quel poco di eroismo che gli resta in dote, se le trova davanti come un Ercole al bivio: di qua una Virtù accollacciata e frigidina, di là una Viziosa che toglie il sonno e impedisce di leggere Kant fino a tarda notte. Ma c’è una terza via. Tavolato sembra rinnovare un altro mito fondatore, un’altra coppia antica di duemila anni che ci auguriamo possa visitare di quando in quando i sogni del moralista, e illuminarli. Racconta il padre della Chiesa Giustino di come l’eresiarca Simon Mago vagasse per le vie di Samaria sottobraccio a una prostituta, una certa Elena, riscattata in un bordello di Tiro. Sotto le vesti della donna di malaffare si celava, agli occhi degli eretici simoniani, l’Eterno Femminino. Un bel quadretto alla My Fair Lady, non c’è che dire; e ci piace credere che, andando a spasso in gran gala con il suo puttanone, l’eresiarca se la ridesse sotto i baffi, se ne aveva.
Non sappiamo se Tavolato avesse in mente Simon Mago, mentre componeva la sua stralunata pacchianissima lode alla schietta generosità ed esuberanza della vita, o se la sua fosse solo una reminiscenza baudelaireana (L’être le plus prostitué, c’est l’être par excellence, c’est Dieu). Di certo c’è che queste sono le sue ultime parole: «Puttana sacrata alla notte, notte tu stessa; in te il creatore risplende di luce propria. Puttana, sei la salvezza. Dixi et salvavi animam meam».
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Articolo uscito sul Foglio sabato 12 febbraio 2011 con il titolo Le puttane di Kant.
Quello che mi sorprende di lei è che se avessimo una libreria da confrontare avremmo una quantità di titoli letti in comune spaventosa
Snob
marzo 30, 2011 at 7:25 PM
Sarebbe divertente, come lo scambio di figurine dei calciatori! Chissà qual è l’equivalente libresco di Pizzaballa.
unpopperuno
marzo 30, 2011 at 7:27 PM
Confesso la mia ignoranza. Visto su images mi verrebbe da dire: “Un’ombra ben presto sarai”.
Snob
marzo 31, 2011 at 7:59 PM