Guido Vitiello

It’s a plot! Complotti e complottisti d’Italia e d’America

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La cometa di Halley è una trovata pubblicitaria. La Terra è piatta, da Roma a New York non c’è nemmeno mezz’ora di volo, ma lo stato si è messo d’accordo con le compagnie aeree e così a nostra insaputa ci fanno girare in tondo per venti ore. Esistono foto satellitari del pianeta, d’accordo: ma sono grossolani fotomontaggi, si vede pure il bordo bianco attorno all’incollatura, mica ci abbiamo scritto giocondo in fronte. La calvizie? Altro flagello sconfitto da vent’anni, se non fosse che lo stato è in combutta con i “pomatari” delle case farmaceutiche per nascondere ai cittadini il medicamento miracoloso. Chi si ricorda delle strampalate teorie cospiratorie del dottor Gianni Livore, personaggio partorito dal genio di Corrado Guzzanti ormai quindici anni fa? Chiunque volesse studiare il tipo umano del complottista troverebbe in lui tutto quel che gli serve, in quel signore esaurito di mezza età, gli occhi strabuzzati per l’insonnia, ossessionato dal commercialista, dalla burocrazia e dalle analisi mediche, e soprattutto tormentato dalla moglie abruzzese che giorno e notte frigge qualunque cosa nell’olio nero, lo stesso olio nero in cui hanno fritto e rifritto la mamma e la nonna. Tutto puzza di fritto in casa Livore, dal gatto (abruzzese) della moglie ai pulsanti dell’ascensore, tutto eccetto il computer. E così il nostro se ne sta incollato al monitor, in vestaglia, e molesta l’universo mondo, parla con Tokyo e con Hokkaido, con la Cina e con la Mongolia – ma, gli tocca ammettere, “non mi si fila nessuno”. Gli elementi ci son tutti: la crisi di mezza età, la frustrazione amorosa e familiare, ansie e rodimenti economici, l’uso compulsivo di internet e soprattutto il veleno del risentimento, che trova nell’olio nero delle rifritture abruzzesi un’immagine non meno efficace della bile nera dei fisiologi antichi, l’atrabile che governa i temperamenti melanconici e ipocondriaci.


Guzzanti di certo non sarebbe d’accordo, anzi ci toglierebbe il saluto, ma il suo Gianni Livore ha prefigurato con spaventosa chiaroveggenza un tipo umano oggi assai diffuso: il dipietrista arrabbiato, il commentatore compulsivo del blog di Beppe Grillo, il seguace delle balorderie undicisettembrine di Giulietto Chiesa, l’idiot savant che manda a mente tutti i tomi di Marco Travaglio con l’elenco telefonico dei cattivi d’Italia – in una parola, l’adepto di quella che potremmo battezzare per l’occasione la Setta Fatto-Idv-Grillo-Annozero (acronimo: S.F.I.G.A.). Ma grazie al cielo non tutto il mondo dei complottardi puzza di fritto come quello italiano, e per chi abbia voglia di ristorarsi c’è sempre l’oasi romanzesca dell’America. Che certo pullula di brutti ceffi, antisemiti e islamofobi, razzisti e fanatici religiosi. Ma quanto meno s’inventa complotti più pittoreschi, tira in ballo gli alieni e i rettiliani, gli agenti in impermeabile e i nazisti in astronave, Matrix e il Priorato di Sion. È un complottismo a fumetti.

“L’America, l’America pullula di sbarellati che vedono complotti ovunque, ma anche di alacri studiosi dei medesimi, in un campo che si estende dalla destra più estrema alla sinistra più improbabile, dove chiunque spara ad altezza d’uomo teorie che magari dicono tutto e il contrario di tutto, ma hanno almeno un tratto in comune: la certezza con cui vengono enunciate”. A parlare, o meglio a scrivere, è Mordecai Richler, in uno scanzonato reportage apparso su Playboy nel 1975 e riproposto qualche tempo fa da Adelphi con il titolo Un mondo di cospiratori. Ora in quel mondo si è tuffato un altro canadese, il giornalista del National Post Jonathan Kay, e dopo tre anni di immersione ne è venuto fuori con un libro che appare in questi giorni in Nordamerica: Among the Truthers: A Journey Through America’s Growing Conspiracist Underground. Mordecai Richler non c’è più da un pezzo, e a recensire il libro di Kay ha dovuto pensarci suo figlio Noah, sul Globe and Mail: dagli anni settanta, par di capire, la principale novità (di non poco conto) è internet, che “ha fornito ai cospirazionisti un gran numero di piattaforme per storie di questo genere, e quelli che le raccontano hanno più mezzi che mai per radunarsi, seppure solo virtualmente, e diffondere le loro assurdità”. Anche le assurdità da allora sono cambiate, o meglio alle vecchie lunaticherie se ne sono aggiunte di nuove (non essendo passibili di smentita, le teorie del complotto non scompaiono mai, tendono anzi ad assommarsi e combinarsi in vario modo).

Ai tempi di Richler (padre) le paranoie all’ordine del giorno riguardavano l’omicidio di John Kennedy e quello di Martin Luther King, ma parlando con l’ideatrice della Conspiracy Newsletter, la signora Mae Brussell, Richler riuscì anche “a gettare nuova luce sul nesso, fin qui inspiegabile, tra l’affermazione di Fidel Castro, l’apertura di una filiale texana della squadra di baseball dei Washington Senators, il boom delle piantagioni di tabacco negli Stati del Sud, il presunto suicidio di Ernest Hemingway e i costi esorbitanti della campagna elettorale di Nelson Rockefeller”. Oggi il bollettino delle congiure americane ha altre priorità, due in cima a tutte: gli oscuri natali di Barack Obama, invasore keniota mandato a distruggere l’America (l’esibizione del certificato di nascita non ha certo scoraggiato i cosiddetti birthers) e la gigantesca messinscena dell’11 settembre, un inside job su scala inedita, mistero in coda al quale si è appena aggiunto l’enigma della morte di Bin Laden, di volta in volta dato per già morto da anni, ancora vivo, mai esistito, sosia, ologramma, pelouche, pupazzo a molla, spaventapasseri con barba finta o tutte queste cose insieme (raramente i complottisti scelgono tra congetture in conflitto: meglio lasciarle a mollo tutte, e pescare di volta in volta quella che vien comoda).

Certo, anche l’America ha i suoi Gianni Livore, o dovremmo dire i suoi Spiteful John. Il libro di Kay, che contiene una spassosa “Psychological Field Guide to Conspiracists”, li fa ricadere nella categoria del “Midlife crisis case”, la crisi di mezza età: maschi sulla cinquantina, per lo più panciuti e stempiati, mollati dalla moglie, rimasti senza lavoro o assediati dai debiti. Il caso di scuola è un tal Richard Gage, architetto che gira il mondo predicando che il crollo delle torri gemelle fu dovuto a demolizioni controllate, e lo dimostra con l’ausilio di scatoloni da imballaggio. “Non sono mai stato così felice”, ha confidato Gage a Kay. “A dire il vero mi sento baciato dalla fortuna. Questo è il mio destino, la mia missione. Ho perso la carriera. Ho perso il matrimonio. Ho perso la casa. Ma sto lavorando con dei patrioti, diffondendo la verità su quel che è accaduto nel loro paese. Che cosa posso chiedere di più?”.

Molte sono le strade che portano al cospirazionismo, un campo di studi dove per forza di cose analisi politica e cartella clinica tendono a confondersi: “Fanatismo etnico, paura del mutamento sociale e delle nuove tecnologie, incertezza economica, ennui di mezza età, traumi medici, hybris adolescenziale, fame spirituale, narcisismo, cicatrici psichiche lasciate da traumi passati, psicosi bella e buona”. Tra i tipi umani tratteggiati da Kay nelle sue conversazioni mai canzonatorie e anzi quasi bonarie con i truthers americani, alcuni trovano corrispondenze puntuali nel panorama italiano – il complottista in malafede, lo storico fallito, il semplice svitato: il lettore aggiunga da sé nomi, cognomi e soprannomi – ma ce ne sono anche di una specie che è difficile immaginare sotto altri cieli che non siano quelli statunitensi. Sono i fanatici dell’Apocalisse, legati a filo doppio a certe frange millenariste del protestantesimo americano, che scrutano l’attualità in cerca di Segni dei tempi, presagi dell’Armageddon, avvisaglie dello scontro risolutivo tra le tenebre e la luce. Come il “cristiano rinato” Joseph Farah, un tipo destrorso tutto baffi che nel suo sito WorldNetDaily immagina oscure cospirazioni che fanno capo al socialista islamico afrocentrico che sta distruggendo un paese di bianchi cristiani in cui neppure si è degnato di nascere: Barack Obama, se non fosse chiaro.

Il libro di Kay può far conto su una solida tradizione. È da decenni che gli americani s’interrogano sulle loro passioni cospiratorie, almeno da quando, nel novembre 1964, Harper’s Magazine pubblicò The Paranoid Style in American Politics di Richard Hofstadter. A quel saggio dall’immensa fortuna se ne sarebbero aggiunti molti altri – il libro, tuttora impareggiato, di Michael Barkun, quello un po’ più schematico e sovreccitato di Daniel Pipes – che in fin dei conti si somigliano tutti: il complottismo è tanto vario nelle sue manifestazioni esteriori quanto monotono nei suoi schemi mentali e nei suoi canovacci narrativi. Chi lo osservi a lungo, da studioso o anche da semplice curioso, è tentato prima o poi di dismettere i panni del viaggiatore in paesi esotici per indossare quelli del moralista classico, che vede ripetersi ovunque le stesse futili cose: una volta capìta la musica, il complottismo è d’una noia mortale.

Ma non c’è bisogno di tirare in ballo i cannibali di Montaigne per notare che le pur monotone passioni umane prendono forme diverse sotto diversi cieli, e che la mitologia del complotto ha anch’essa le sue declinazioni nazionali. Kay, nella fattispecie, crede che all’origine della passione americana per le congiure ci siano fattori come il rapporto di amore-odio con la tecnologia intessuto fin dagli anni cinquanta, la storica tradizione politica di diffidenza verso lo stato e i grandi poteri, il millenarismo religioso. A questi elementi se n’è aggiunto un altro, ed è quello che più gli preme: il crollo di una visione condivisa della realtà, quella che lui chiama “balcanizzazione intellettuale”, la sfiducia nella ragione e nel linguaggio come mezzi per pervenire a una verità comune. Tutto questo ha raggiunto un punto di non ritorno con l’11 settembre, e Among the truthers si presenta, prima di tutto, come un libro “sui suoi effetti sismici sull’intelletto collettivo del paese – sulle sue conseguenze cognitive”. Il terreno era stato dissodato da decenni di teorie radicali sui media manipolati dal potere, così come da certe tendenze del sistema educativo americano. Kay cita l’esordio del grande libro di Allan Bloom del 1987, La chiusura della mente americana: “C’è una sola cosa di cui un professore può essere assolutamente certo: quasi tutti gli studenti che entrano all’università credono, o dicono di credere, che la verità è relativa”. Ma perfino Bloom sarebbe sconcertato, oggi, dal grado di frammentarietà del panorama americano, dove la politica delle identità – etniche, religiose, culturali – invece di creare un terreno di condivisione ha consentito a ciascun gruppo di rinchiudersi nella propria “paranoide camera degli echi”. Il dibattito pubblico somiglia sempre più a un frigido défilé di visioni del mondo, tutte più o meno ben vestite e agghindate, nessuna che abbia i mezzi per farsi credere più vera delle altre. Se la realtà è una matassa informe da cui ciascuno può svolgere il suo filo, ebbene, le labirintiche fantasie cospirazioniste non incontrano grandi resistenze. E la verità del buon senso e della scienza, per imperfetta che sia, si trova degradata a “versione ufficiale”, cioè a velina governativa. Kay trova allarmante lo stato di cose; assicura che sarebbe fatale prender sotto gamba i complottisti, e che bisogna anzi studiarli a fondo: “Non puoi sconfiggere i nemici dell’Illuminismo se non li conosci”.

Se suona alquanto enfatico, è perché lo è. Ed è buona norma dubitare delle spiegazioni che tirano in ballo la crisi dell’Illuminismo, se non altro perché la premessa su cui si fondano è un’illusione retrospettiva bella e buona, una grandiosa sopravvalutazione della presa che quegli ideali ebbero sulla mentalità comune. Spiriti bizzarri ce n’erano al tempo di Voltaire, e hanno continuato indisturbati a moltiplicarsi a ogni nuova ristampa dell’Encyclopédie. Ma fatto questo caveat, la questione sollevata da Kay è interessante: quali sono i terreni e i climi culturali più propizi all’attecchire della malapianta cospirazionista?

Prendiamo il caso di un piccolo e soleggiato paese dell’Europa meridionale, culturalmente “balcanizzato” ben prima di internet per tante vicissitudini storiche, di scarsa o nulla tradizione empirica e di saldissima tradizione idealistica e fantastica, sulla quale è passata pure una robusta mano di marxismo dottrinario. Prendiamo insomma il caso dell’Italia. Quando le cose si fanno difficili, sulla scena del nostro melodramma nazionale, ecco che gli attori si volgono alle quinte ed evocano dall’ombra una dramatis persona che può prendere i nomi più vari: il Grande Vecchio, il Convitato di pietra, le forze oscure della reazione, il doppio stato, la piramide occulta. Non c’è evento italiano che non sia stato riletto come trama segreta, non c’è guanto di cui non si sia cercato il rovescio, né d’altro canto s’è mai vista, nel nostro paese dove il potere è così opaco, una memoria condivisa su alcunché. Ma le cose vanno peggiorando a vista d’occhio, e in questo clima che alcuni chiamano di guerra civile, e che è invece d’incivilissima pace, si colgono segnali allarmanti. Se perfino il polierudito professor Cordero può permettersi di scrivere, senza pagare il pegno del ridicolo, che le idee ispiratrici della (ventilata) riforma della giustizia – buone o cattive che siano – “hanno marchio piduista” e che “Licio Gelli vanta diritti d’autore”; se fior di trasmissioni di approfondimento invitano, come esperto da consultare sulla morte di Bin Laden, Giulietto Chiesa, e i conduttori lo guardano assorti come se davvero dicesse cose con capo e coda, ebbene, siamo davvero messi male.

Ma il guaio nostro è un altro, ed è ahimè più profondo e radicato. Si diceva che tra le fonti della passione americana per i complotti ci sono il fondamentalismo protestante – con la sua enfasi sulla rivelazione privata e le sue letture spesso farneticanti della Bibbia – e una certa sfiducia individualista verso il potere statale. La nostra tradizione cospiratoria, al contrario, è cattolico-romana per un verso e per l’altro veteroideologica: tradisce cioè l’antica insofferenza della teoria verso i fatti che non vi si lasciano inquadrare, e non per caso nel suo solco s’immettono volentieri certi orfani inconsolabili della cortina di ferro.

Il complottista americano è a volte un fanatico settario, un predicatore millenarista; in altri casi si ispira invece alla figura del muckraker, lo “spalaletame”, il giornalista che svela le malefatte dei potenti. A suo modo (ed è modo abnorme) si sforza di documentare quel che dice, la sua è una parodia dell’indagine rigorosa, e in fondo ogni parodia – vale anche per le messe nere – è un omaggio indiretto all’originale. Ma se il truther americano ha per modello il reportage investigativo, e per filosofia quella dell’eretico che tiene testa al potere, il dietrologo italiano ha tutt’altro modello: la requisitoria del pubblico ministero. E per quanto possa spacciarsi come eretico, riconosciamo nei suoi tratti il vecchio profilo dell’inquisitore, anche se è un inquisitore senza potere. La tradizione locale, d’altro canto, è dalla sua parte: nella vecchia Europa, anche la storia delle visioni cospiratorie è storia chiesastica, di guerre di religione, prende forma nella fucina della Rivoluzione francese tra i gesuiti che gridano alla congiura massonica e i giacobini che gridano alla congiura aristocratica. Prosegue con le grandi mitologie cospiratorie del nazismo e dello stalinismo. E la matrice ancora più antica sono i processi per stregoneria: “Stesso dossier e stessa requisitoria, stesse fissazioni ossessionali, stesso clima nevrotico di paura e fascinazione mescolate”, scriveva Raoul Girardet in un saggio illuminante sul mito politico della cospirazione. Il classico del nostro complottismo, ben prima dei Protocolli, è il Malleus maleficarum.

Questa eredità pesa tuttora sulla storia italiana, al punto che anni fa ci toccò di assistere al formarsi di uno spaventoso ircocervo, il gesuita-giacobino: Leoluca Orlando, il teorico del sospetto come anticamera della verità, che additava a trame oscure rigorosamente indimostrabili: “Io sono un uomo politico e svolgo un ragionamento”, diceva. “Le prove le cerchino i magistrati”. Era, pari pari, l’antica idea del braccio secolare: noi indichiamo gli eretici, e del resto si occupi il boia. Il complottista italiano è spesso un Torquemada senza ruota del supplizio, un Marat senza ghigliottina: “Per credere a un complotto”, scriveva Marat, “voi avete bisogno di prove giuridiche: a me basta l’andamento della situazione generale, le relazioni dei nemici della libertà, gli andirivieni di certi agenti del potere”. Non cerca prove, il nostro complottardo: svolge congetture e ragionamenti nel chiuso della sua stanzetta, fa castelli in aria, lavora di forbice sulle vecchie carte e ti ci impicca. Mette in fila sillogismi sbilenchi e non sequitur, salti mortali logici e deduzioni abnormi, si dibatte tra uno pseudoargomento e l’altro come un pipistrello impazzito, anche se è convinto di esser giunto alla radura dove la trama delle cose si fa visibile. Si crede illuminato. E invece vedetelo, intrappolato nel suo gergo selvoso e obliquamente allusivo, a maneggiare giri di frasi tra il burocratico e il giudiziario – “disegno oggettivamente e strutturalmente convergente con…”, “trame in apparenza contrapposte che si armonizzano su un piano più alto…” – un mondo dove gli attori in campo sono sempre “settori” deviati di corpi dello stato e “tecnostrutture” che operano al quarto, al quinto o al decimo livello: la sua grigia immaginazione, a quanto pare, non sa figurarsi di meglio che un palazzone sovietico. E già che si parla di solai e suppellettili d’epoca brezneviana, ecco una frase di Giulietto Chiesa sull’11 settembre che rende bene l’idea: “Come è già accaduto in altri grandi episodi di terrorismo ‘di Stato’, la verità non sarà mai più ricostruibile. E la ragione di ciò è, a ben pensare, una prova indiretta che siamo appunto di fronte a un grande evento della categoria ‘terrorismo di Stato’”. A ben pensare, appunto. Ma la circolare stupidità del ragionamento è pari solo al suo spirito persecutorio. È un gioco delle tre carte: se non ci sono prove, è perché l’accusato è così diabolico da averle cancellate. Così ragiona il complottista, inquisitore che si gabella per eretico: se trovo le prove, sei colpevole; se non le trovo, sei colpevole due volte perché le hai occultate. Testa, vinco io; croce, perdi tu: tanto vale che non la fai lunga e confessi. Lo sentimmo dire, con parole assai simili, nella requisitoria del processo Tortora. E solo per carità di patria lasceremo da parte i casi in cui la mentalità cospiratoria si è insinuata in quelli che le chiavi del carcere ce le hanno davvero. Basterà ricordare, di passaggio, quel noto magistrato, protagonista di inchieste assai applaudite negli anni ottanta, che finì a scriver libri in cui, risalendo come una carpa di mistero in mistero, dal genocidio ruandese all’attentato a Wojtyla, rivelava una congiura guidata da templari islamici e nazisti veneziani in grado di connettere l’11 settembre, la strategia della tensione, le stragi di Cosa Nostra, le SS di Himmler, la Compagnia di Gesù di Sant’Ignazio, i Dogi della Serenissima, i sufi e i dervisci. Come in una canzone di Battiato.

Resta il problema di fondo: come liberarsi del cospirazionismo? Jonathan Kay, tutto pieno di buone intenzioni socratiche, punta sull’educazione, e propone che si predisponga per le matricole universitarie una sorta di anticonspiracist curriculum. Ma a noi europei passati per le mattanze del novecento questo ottimismo pedagogico alla Goethe o alla Renan suona quasi di scherno. E poi, per quanto possa allettarci l’idea di fare i crociati dell’Illuminismo, perfino Kay deve ammettere che a confutare gli argomenti dei complottisti sul terreno della ragione ci si caccia in un pantano: svicoleranno, vi costringeranno a stare al loro gioco balordo, messi alle strette vi accuseranno di essere al soldo di qualche Entità; se non voi vostra nonna, che di certo faceva crostate per il biscugino laterale di un agente del Mossad, impastandole con il sangue dei cristianucci. La verità è che del complottismo non ci si libera, perché il suo germe è antico quanto il peccato originale: è il sospetto, il sospetto eretto a metodo, codificato nella dubitatio incerta dei manuali inquisitoriali, consacrato come prova regina dai tribunali giacobini e staliniani. Diceva Tommaso d’Aquino che condannare in base al sospetto è peccato mortale, e si appoggiava a un monito di Paolo ai Corinti: “Non giudicate prima del tempo”.

Ma per carità, non chiuderemo con un fervorino o una pia esortazione. Serve, al contrario, un po’ di astuzia gesuitica. Più che affannarsi a combattere i complottisti, crediamo, sarebbe meglio assecondarli (almeno i più innocui). Trattarli più o meno come i cinque burloni di Amici miei trattano il Righi. Ricordate? Quel pensionato col baschetto a cui Tognazzi, Celi e compagnia fanno credere di trovarsi al centro di oscure trame malavitose. Ecco, dovremmo divertirci a disseminare il cammino dei complottisti di prove ambigue della grande congiura, indizi cifrati che la facciano apparire ancora più ramificata e diabolica. Lasciar loro bigliettini d’amore con stampate a rossetto le labbra di un alieno, pizzini di Elvis Presley al bandito Giuliano, papiri copti con gli omissis del memoriale di Moro, interviste in esclusiva con lo spettro che spifferò il nome Gradoli. Insomma, l’unica arma contro i complottisti è incoraggiarli al gioco fino a farli sballare, come al Black Jack. A quel punto, male che vada, ci avranno lasciato in dote qualche buon romanzo. Perché questo, al fondo, è il complottismo: un genere letterario. Non sarà un caso se quel vecchio reportage di Mordecai Richler aveva per titolo una parola che in inglese sta tanto per congiura quanto per trama romanzesca: It’s a plot!

Articolo uscito sul Foglio il 21 maggio 2011 con il titolo Troppo facile per essere vero. La setta immortale dei dietrologi. Grazie a Sara per l’aiuto da Oltreoceano/Overseas!

9 Risposte

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  1. Sull’11 settembre ti segnalo questo, stranamente sfuggito a Giulietto Chiesa: http://bit.ly/ajPlAf (magari qualcuno glielo segnali)

    ivan_z

    Maggio 23, 2011 at 12:42 PM

  2. credo ci sia un complotto delle procure contro il governo italiano

    andrebbe citato, assieme agli altri

    gorgialeontino

    Maggio 23, 2011 at 12:59 PM

  3. qualcosa di un po profano, forse, sulla congiura “playstation” >>>>http://www.youtube.com/watch?v=31cusg42YCE&sns=fb

    Davide

    Maggio 24, 2011 at 1:34 PM

  4. “l’adepto di quella che potremmo battezzare per l’occasione la Setta Fatto-Idv-Grillo-Annozero (acronimo: S.F.I.G.A.)” non starai un po’ esagerando ?

    elisa

    Maggio 24, 2011 at 5:45 PM

  5. Il miglior articolo sull’argomento letto finora. Chapeau.

    cpal

    Maggio 24, 2011 at 11:53 PM

  6. Non se mi diverte di piu’ la stoccata a Battiato (o che almeno io interpreto come tale, da detrattrice, e comunque anche in chiave bonaria la battuta e’ carina) o la descizione perfetta dell’Italia. Quanto a bravure piu’ concettuali, sono assolutamente d’accordo sulla differenza tra complottismo all’americana e quello all’italiana. ahime’.
    Bell’articolo, Vitiello, uno dei tuoi migliori!

    natadicorsa

    giugno 8, 2011 at 7:31 PM

  7. bell articolo,sbarellamenti su grillo e travaglio a parte…

    mastiff85

    febbraio 23, 2012 at 5:10 PM

  8. […] c’è – il tratto originale del cospirazionismo autoctono? Quali i suoi attori, i suoi fondali? Una volta mi capitò di sostenere, in una battuta, che se il complottista americano è un giornalista […]


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