Guido Vitiello

Confessioni di un anticomunista viscerale

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Uno dei primi ricordi di mio padre risale agli anni della guerra, quando non aveva neppure quattro anni: un soldato inglese gli regalò del cioccolato, un tedesco gli strappò dalle mani gli occhiali da sole della mamma. A un grado embrionale, dunque, la sua coscienza politica si formò con lo stesso meccanismo di certi esperimenti sull’apprendimento degli scimpanzé: banane e scosse elettriche. Nel mio caso le cose furono più ingarbugliate, lo schema elementare di simpatie e antipatie su cui si regge ogni coscienza politica non trovò appigli così saldi: le mie passioni civili erano costrette a fluttuare. Nel 1989, a tredici anni, appresi dell’esistenza del Muro nello stesso istante in cui lo vidi crollare. Da lì in poi, fu come assistere a una partita in cui, nottetempo, qualcuno avesse cancellato le linee di gioco: per orientarmi ci vollero anni di letture, congetture e arrabbiature. Se mio padre riassaporasse oggi quel cioccolato, chissà, qualcosa risveglierebbe la potenza dell’originario insight – alleati buoni, nazisti cattivi. Io devo accontentarmi di madeleine molto più astratte: la stagione della mia formazione politica è riaffiorata quando mi sono trovato tra le mani il libretto postumo di un autore che allora si sentiva nominare spesso, François Furet. S’intitola Inventaires du communisme e non fa che affinare le tesi del Passato di un’illusione, analisi e anamnesi di una fata morgana (quella comunista) di cui egli stesso era stato in balìa. Ebbene, fu proprio grazie ai detrattori di Furet che feci la mia conoscenza con una coppia inseparabile di sostantivo e aggettivo: era, dicevano, un «anticomunista viscerale». E questo, a quanto pare, non andava bene.

Ogni formazione politica è anche un’educazione sentimentale, e io mi trovai nella morsa di un double bind: tutto quel che apprendevo dei regimi comunisti mi rovinava la digestione non meno di quel che sapevo di altre dittature, ma un codice non scritto – più simile a un Galateo che a un catechismo ideologico – imponeva di lasciar fuori le «viscere» dall’anticomunismo, e solo da quello. Beninteso, potevo, anzi dovevo condannare il Gulag o il Grande Terrore, ma a freddo, con apatia da filosofo stoico. Da bravo Candido chiesi lumi sul perché del doppio criterio, al di là delle questioni storiografiche sul grado di atrocità comparata dei regimi (sapevo bene che Aids è diverso da Ebola, ma mi erano antipatici entrambi). Il comunismo è morto, rispondevano, non ha senso attardarsi in livori da Guerra fredda. Sarà, ma come la mettevamo con i comunismi superstiti, come quello cubano? Era lecito alterarsi, in quel caso? No, non lo era. Ne avrei avuto conferma anni dopo da uno che del Galateo ha fatto la sua stella polare ideologica: Michele Serra. Fu quando Bertinotti, allora presidente della Camera, mandò i suoi auguri di compleanno a Fidel Castro. Per biasimare il gesto, Serra scrisse un pezzo da antologia del bon ton: esordiva dicendo – a freddo, senza tradire emozioni – che Castro «in termini tecnici ben prima che ideologici» (?) è un dittatore; poi dava giù di viscere contro l’arcidefunta dittatura di Batista («disgustoso regime di pochi plutocrati»), e tra un cliché e l’altro sui sognatori della Sierra maestra lasciava cadere una frasetta sprezzante contro gli anticastristi di Miami e la loro «pressione danarosa e volgare». Capii, da quella coppia di aggettivi, che l’anticastrismo – e per estensione l’anticomunismo – era anzitutto una passione da cafoni che non sanno stare in società, e che l’«anticomunista viscerale» ha qualcosa del Merola di Zappatore, che s’intrufola, sporco e brutto, in una compagnia di «uommene scicche e femmene pittate». Reinaldo Arenas, scrittore cubano morto in esilio, ricordava di quando a Harvard si trovò a tavola accanto a un professore filocastrista. Gli sfilò il piatto da sotto il naso e lo scagliò contro il muro, tra lo sconcerto dei commensali.

Ecco, non c’è bisogno di evocare quei fantomatici «salotti» che ossessionano le fantasie degli esclusi. Non serve un salotto fisico perché vigano certe regole della conversazione salottiera, indagate da Georg Simmel in un saggio di cent’anni fa, prima tra tutte quella che impone di tener fuori «dissonanze emotive, eccitazioni e depressioni, luci e ombre della vita più intima». Quando si parla di comunismo, ovunque ci si trovi, anche in mezzo al traffico, si dischiude un salotto magico da cui ogni animosità è bandita come segno d’ineleganza. Con gli anni avrei appreso che c’erano ragioni per questa regola – alcune non prive di nobiltà storica, altre piuttosto meschine – ma non bastò a togliermi dalla testa che si trattasse di una cosa sbagliata. E decisi che no, il mio anticomunismo non avrebbe divorziato dalle mie viscere, anche se da bambino nessun cosacco mi aveva rubato l’orsacchiotto.

Articolo uscito sul numero di giugno di IL con il titolo Anticomunismo.

Written by Guido

agosto 20, 2012 a 7:13 PM

5 Risposte

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  1. Fruttero e Lucentini hanno scritto qualcosa di simili ne “La prevalenza del cretino”.

    eliaspallanzani

    agosto 21, 2012 at 12:29 am

    • L’ho cercato, ma senza successo! Ho l’edizione “definitiva” riveduta e rimaneggiata (“Il cretino in sintesi”), può darsi che fosse in qualcuna delle edizioni precedenti.

      unpopperuno

      agosto 24, 2012 at 11:41 am

      • L’articolo si intitolava, se ben ricordiamo, “puff puff”, ma tutto il capitolo conteneva stoccate contro i comunisti da salotto e la loro tendenza a giustificare qualsiasi atrocità con signorile distacco.

        eliaspallanzani

        agosto 24, 2012 at 1:57 PM

  2. Scusate ma l’espressione “Stato Comunista” non è un ossimoro? No perché per Marx il comunismo, che si sarebbe dovuto avverare e non si è invece avverato, con il dispositivo statale (a centralizzazione dei mezzi produttivi, il potere al partito etc etc) non ci entrava molto; e ci entrava poco anche il socialismo. Comunque tutto ciò è archeologia, e se dobbiamo discutere del numero dei morti, il dispositivo capitalista per nascere e crescere e trasformarsi (dal Settecento ad oggi) ne ha fatti molti di più dei cosiddetti “Stati Comunisti”; ma questo sarebbe un discorso moralista, ed io mi sforzo di non esserlo.

    lettore silenzioso

    agosto 26, 2012 at 5:38 PM

  3. Complimenti vivissimi , grazie delle Vostre precisazioni ! E’ un onore leggerVi .

    idrogenoconsulting

    ottobre 13, 2017 at 8:18 PM


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