Soli e civili: l’iniziazione letteraria secondo Matteo Marchesini
L’iniziazione di un giovane di talento ai misteri della confraternita letteraria ha spesso qualcosa di avventuroso. Rodolfo Wilcock, in uno dei testi d’occasione scovati da Edoardo Camurri e raccolti nel Reato di scrivere, l’ha paragonata alla partita di caccia che gli aristocratici di Parigi organizzarono in onore del giovane Bonaparte. Nel parco di Auteuil non c’era nulla da cacciare, così dovettero popolarlo di conigli da allevamento e prelevare dal porcile accanto alla cucina un grosso maiale nero perché facesse la parte del cinghiale. L’ignaro Napoleone fece strage di quei figuranti addomesticati, tra gli sghignazzi rattenuti dei partecipanti. “L’analogia è fin troppo evidente. Napoleone è il giovane intellettuale, forte della sua giovinezza che suscita la solita ammirazione mescolata al disprezzo. Viene invitato a caccia dai suoi colleghi anziani, che hanno già pronta la finta preda”. Dopo che l’iniziando ha ucciso una dozzina di mitissimi conigli (sono le sue prime prove letterarie, al tempo di Wilcock una raccolta di liriche, oggi più probabilmente un volumetto di racconti), gli anziani lo invitano a cacciare il cinghiale, ossia il romanzo. “Nel bosco c’è soltanto un maiale nero terrorizzato dai cani; tutti sanno che si tratta di un povero maiale, eppure aizzano l’inesperto gridando: Al cinghiale! Al cinghiale!”. Il grande passo è fatto, l’ammissione al clan è avvenuta: “Ormai l’iniziato può cacciare da solo: se è abbastanza furbo da capire come stanno le cose, comprerà come gli altri la selvaggina al mercato; se non è furbo, seguiterà a girare per i boschi vuoti”.
Matteo Marchesini ha la stessa età di Napoleone al tempo di quella partita di caccia: poco più di trent’anni. Forse per difetto di furbizia, forse per quell’eccesso d’intelligenza che impedisce prima di tutto di ingannare sé stessi, ha scelto la seconda via, il bosco deserto o disertato dove però può capitare d’imbattersi in conigli non da batteria e in veri cinghiali selvatici. Il suo libro, Soli e civili (Edizioni dell’Asino), è un romanzo d’iniziazione letteraria camuffato da raccolta di saggi. I cinque autori a cui è dedicato – Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi, Bellocchio – vi sono, prima e più che ritratti, attraversati e saccheggiati, come terreni di caccia. Da ciascuno, Marchesini prende tutto ciò che è possibile prendere: da Savinio, l’arte di essere devoti egualmente di Omero e di Collodi, di nascondere qualche trivialità tra i drappeggi dell’eleganza, di fare filologia per gioco; da Noventa, la denuncia dell’inganno sentimentale dello scrittore che vuole “parlare a tutti”; da Fortini (il cinghiale, in questa partita di caccia), la necessità inaggirabile di rispondere delle condizioni del proprio lavoro intellettuale – linguaggio, forme stilistiche, destinatari, distribuzione, contesto extra-letterario – e di non fingersi portatori della nuda “parola” al “popolo”; da Bianciardi, oggi sfigurato da un culto postumo che ne fa una via di mezzo tra un Rino Gaetano delle lettere e un idolo dei precari arrabbiati, Marchesini apprende l’“orecchio assoluto” per la musicaccia dei gerghi settoriali, l’attitudine da intellettuale-cavia di fenomeni – industria culturale, alienazione – che presso altri non erano che argomento di chiacchiera, e la benedetta incapacità di amministrare i propri talenti (“Per me successo è participio passato del verbo succedere”, diceva); Piergiorgio Bellocchio, infine, gli largisce il dono iniziatico più prezioso: “Dopo quasi trent’anni di attività pubblicistica, sono riuscito senza particolari sforzi, semplicemente affidandomi all’istinto, all’amor fati, a ottenere un risultato che solo a pochissimi è concesso: non ‘contare’ niente”.
Marchesini ha letto tutto quel che era umanamente possibile leggere in trent’anni di vita per chi voglia comunque continuare a radersi, pettinarsi e mangiare di tanto in tanto un panino. È la smentita vivente dell’abbaglio di Mallarmé: la carne non è triste nemmeno un poco, anzi è rosolata da quel fuoco sacro che porta a letture millimetriche dei propri maestri, esercizi di ammirazione assai temibili perché possono facilmente ribaltarsi nel loro opposto: in inquisizioni. Magari questa minuzia di glossatore lo porta a soffermarsi anche in terreni di caccia che si potrebbero senza danno abbandonare all’incuria: davanti alle lotte di Fortini per includere la malattia e la morte nell’antropologia marxista, per esempio, un trentenne dovrebbe far valere il proprio privilegio d’anagrafe e riconoscere in quelle dispute, con tutta la rudezza del caso, la riprova di un aspetto (si può dire?) sottilmente demenziale del marxismo. Ma è normale che una partita di caccia, quando non è tirassegno con animali da cortile, porti a inciampare qua e là in carogne di animali uccisi dal clima mutato. E dunque Marchesini continui ad aggirarsi per boschi: tra i suoi coetanei è forse il solo che abbia qualche chance, se non di raggiungere Austerlitz, di abbattere un cinghiale vero.
Articolo uscito sul Foglio il 24 agosto con il titolo L’arte della caccia, ovvero l’iniziazione letteraria secondo Marchesini.
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