Happy Birthday, Mr. Herzog
Al diavolo l’auriga e l’istrione, il gladiatore e il pantomimo. Ai cristiani che rischiavano di dannarsi l’anima frequentando gli anfiteatri, i circhi e gli stadi dei giochi imperiali, Tertulliano nel De Spectaculis rammentava il privilegio inestimabile largito dalla nuova fede: c’erano in palio biglietti per lo spettacolo supremo, quando Michele Arcangelo radunerà le schiere angeliche per la battaglia finale. “E poi che grandioso spettacolo quello imminente della venuta del Signore, ormai innegabile, ormai magnifico e trionfale! Che grandioso spettacolo l’esultare degli angeli, la gloria dei santi che risorgono! Quale spettacolo il regno dei giusti che viene subito dopo! Quale ancora la nuova città di Gerusalemme! Ma certo rimangono anche altri spettacoli, in quell’ultimo giorno del giudizio che è senza fine, quel giorno non atteso e deriso dai pagani, quando questo mondo così vecchio e tutte le sue rinascite saranno bruciati in un unico incendio. Che grandioso spettacolo, allora!”. Si trattava per i primi cristiani di pazientare ancora un poco, e di allenarsi a immaginare con gli occhi della fede la dissoluzione del secolo in faville. Tutt’al più, ecco, poteva esser saggio assicurarsi un posto in prima fila, un palchetto, insomma una buona veduta sul più sublime dei disaster movie, che molti credevano imminente. È quello che devono aver pensato gli anacoreti che intorno all’ottavo secolo decisero di stabilirsi sulla maggiore delle isole Skellig, un picco scabro e inaccessibile assediato dagli uccelli marini al largo della costa sudoccidentale dell’Irlanda, in quel che immaginavano fosse l’orlo estremo del mondo. Fu intorno all’anno mille, quando le attese della seconda venuta rinfocolarono il culto di Michele, che a quell’isola rocciosa fu dato il nome dell’Arcangelo. Ma l’unico finimondo cui i monaci di Skellig Michael poterono assistere furono le razzie e le depredazioni dei Vichinghi, venuti fin lassù a caccia di tesori. Mille anni dopo, quei posti numerati in cima al dirupo furono occupati per qualche giorno da una troupe di nuovi cercatori dell’Apocalisse, in fuga dagli spettacoli imperiali dei nuovi pagani di Hollywood.
Nella primavera del 1976 le riprese di Herz aus Glas erano ormai finite. L’oscura parabola alchemica di un villaggio bavarese che cade nella disperazione e nella follia quando il vetraio muore portando con sé nella tomba il segreto della fabbricazione del vetro rubino sembrava doversi chiudere nel più cupo dei modi, con gli abitanti ormai marchiati dalla condanna, le fornaci distrutte e il profeta del villaggio, Hias, ricacciato sui monti a divinare catastrofi. Ma Werner Herzog – lo racconta un giovane americano che lo accompagnò nelle riprese annotando tutto in un diario – si persuase che al film servisse un’altra fine, una nuova visione profetica di Hias che avesse luogo proprio sulla cima di Skellig Michael, tra le rovine di pietra del monastero: “I Dimenticati sono sopravvissuti, e ancora non sanno che la terra è rotonda; una figura solitaria sta in piedi sull’orlo di un precipizio, il volto bagnato dai venti gelidi; quest’uomo è il primo a sperimentare il Dubbio; costringe altri tre a solcare i mari con lui in cerca dei confini del mondo, per trovare l’Abisso; sulla cima di Skellig Rock, quattro monaci melanconici celebrano il passaggio con la più triste delle melodie; i coraggiosi sopravvissuti remano via. ‘Speranza’, spiegò Herzog”. Il direttore della produzione Walter Saxer, alquanto esasperato, non voleva saperne: quella benedetta “speranza” avrebbe rosicchiato migliaia di dollari a un budget già magro, comportando oltretutto un’infinità di seccature organizzative. Ma Herzog la spuntò, e il 28 aprile la troupe dalla Baviera partì alla volta dell’Irlanda. Sulla barchetta da pescatori con cui raggiunsero le isole Skellig c’era anche un certo Alan Greenberg, allora venticinquenne, soggiogato dal carisma di Herzog e da questi reclutato con una chiamata dal tono messianico: “Devi venire con me”, si sentì dire. “C’è del lavoro da fare e lo faremo bene. Al di fuori sembreremo dei gangster. Dentro di noi vestiremo tonache da sacerdoti”. È lui l’americano che tenne il diario di lavorazione del film, una cronaca sognante pubblicata con il titolo Heart of Glass da una fantomatica Skellig Edition di Monaco nel 1976, l’anno in cui Cuore di vetro uscì nelle sale. Il libro restò a lungo perduto, o dimenticato.
Ora che Werner Herzog si appresta a compiere settant’anni – il prossimo 5 settembre – quel vecchio diario è rispuntato fuori, riveduto e corretto, con un nuovo titolo, Every Night the Trees Disappear, delle fotografie mai viste prima, una postfazione un po’ imbarazzata del regista, un giudizio entusiastico di David Lynch sulla quarta di copertina e un’insolita avvertenza editoriale sul retrofrontespizio, che richiama alla prima edizione: “Circa duemila copie ne furono distribuite, o semplicemente scomparse”. Il possesso di quella rara edizione originale di Heart of Glass è come il segno di appartenenza a un’invisibile massoneria di antichi cultori, di monomaniaci e di ossessionati, specie adesso che Herzog, nella sua nuova stagione a Los Angeles, è a un passo dalla consacrazione come eroe pop: ospite in un episodio dei Simpson, parodiato su YouTube (dove molti si divertono a imitare la sua parlata cantilenante e ipnotica), pronto infine a impersonare l’antagonista di Tom Cruise nel thriller Jack Reacher, annunciato per dicembre. Ma non c’è verso, per guadagnare l’accesso al suo mondo si deve passare tuttora per Cuore di vetro. Quel vecchio film sta a guardia della soglia: fascinazione o repulsione aspettano chi la varca. È la Skellig Rock di Herzog: l’avamposto più estremo, più indifeso, più trasparente e più azzardoso, il capolavoro che è sempre a un passo dal pasticcio, la corda del sublime così tesa che può spezzarsi ad ogni istante nel kitsch o nel comico.
Alcuni, leggendo il diario di Greenberg, detesteranno di Herzog tutto il detestabile: il genio istrionesco che sceglie gli attori convocando sedute di ipnosi a mezzo stampa, che coltiva con sapienza di affabulatore la sua aura di eccentrico e di visionario, che durante le riprese si abbandona alle idiosincrasie più selvagge – fino alle minacce di morte agli attori – e che si contorna di una compagnia di giro di adorabili lunatici come Clemens Scheitz, già comparso nella parte del cancelliere in L’enigma di Kaspar Hauser, un vecchietto convinto che Newton, Galileo ed Einstein fossero tutti degli impostori, pronto a dimostrarlo con indecifrabili diagrammi, e certissimo di aver trovato il segreto dell’universo in una singola parola di sua invenzione: “Feilgau”. Noi massoni herzoghiani, al contrario, ne ammireremo tutto l’ammirabile: prima di tutto, la sicurezza e la libertà da sonnambulo con cui Herzog persegue un’idea creativa, senza tentennamenti e divisioni interiori, senza incontrare difficoltà che non siano i limiti fisici di ciò che è umanamente filmabile.
Nel diario di Greenberg c’è una scenetta esilarante che ha tutta l’aria di essere apocrifa, ma che vale come allegoria di un’idea del cinema. Herzog si stava arrampicando a mani nude sulle rocce di Skellig Michael, tra le raffiche di vento, quando lo raggiunse la voce del giovane e devoto discepolo-cronista, che lo scortava dabbasso. “Herzog, cosa pensi della teoria registica dell’‘autore’?”. “La che?”, rispose come poteva, mentre si teneva avvinghiato a una parete rocciosa a quasi trecento metri sull’Oceano. “La teoria dell’‘autore’, hai presente?”. “La teoria dell’‘autore’? Non ho idea di cosa sia. Cos’è la teoria dell’‘autore’?”. “Lascia perdere”. “Cosa?”. “Lascia perdere”. Le speculazioni accademico-testuali francesi, la caméra-stylo, gli altri assilli dei Cahiers du Cinéma e della Nouvelle Vague lo raggiungono come un farfugliamento incomprensibile e confuso dal vento. È lo Herzog dei proclami estetici, spavaldo fino al vezzo. Jean-Luc Godard? “Moneta falsa intellettuale, se comparata a un buon film di kung fu”. Il cinema è prima di tutto un’attività atletica – il film più esoterico e autoallegorico di Herzog, il mediometraggio La grande estasi dell’intagliatore Steiner, è dedicato all’estasi fisica del salto con gli sci – e in secondo luogo un’attrazione da fiera. Se proprio lo si vuole accostare alle arti, allora si dovrà risalire molto più indietro di Edison e dei Lumière, scartare senza remore le chimere del Romanticismo e prima ancora quelle del Rinascimento, culla di tutte le “teorie dell’autore”: “Preferirei che i miei film fossero visti piuttosto come l’opera degli artigiani del tardo Medioevo, persone che avevano botteghe e apprendisti e che non si sono mai considerati artisti”, confidò Herzog a Paul Cronin. “Tutti gli scultori prima di Michelangelo si vedevano come tagliapietre. Nessuno pensava a sé stesso come a un ‘artista’, fino forse al tardo quindicesimo secolo”. Tra gli antenati professionali del regista cinematografico bisogna quindi annoverare anche il mastro vetraio, e non è certo una mansione di poco conto, perché senza il mastro vetraio il villaggio impazzisce e finisce arso dal fuoco. È la storia di Cuore di vetro.
Tante chiavi allegoriche sono state tentate per dissigillare quel cupo apologo fitto di leggende bavaresi, nato da un racconto dello scrittore e regista Herbert Achternbusch, Die Stunde des Todes, che firmò anche la sceneggiatura (Herzog la interpolò a suo piacimento, con grande pena di Achternbusch): favola alchemica, allegoria della nascita del capitalismo, profezia della scomparsa delle industrie? Che cos’è il vetro rubino senza la cui formula il villaggio è condannato alla rovina? Una pietra filosofale? E a cosa additano le visioni apocalittiche di Hias? E prima di tutto, che cos’è il cuore di vetro? Greenberg provò a chiederlo allo stesso Herzog in un viaggio in macchina ai confini della Cecoslovacchia, ma non ne ottenne granché: “Sembra implicare per me il significato di uno stato fragile”, rispose con difficoltà. “Significa anche una sorta di trasparenza. E una specie di qualità glaciale”. Tra le fonti d’ispirazione del film c’era uno sconcertante documentario etnografico di Jean Rouch, Les maîtres fous, dove si assisteva a una cerimonia di possessione degli Hauka, una setta di nigeriani immigrati in Ghana, culminante nel sacrificio rituale e nel divoramento di un cane (da qui venne a Herzog l’idea di far recitare gli attori sotto ipnosi). E se Cuore di vetro fosse una grande allegoria sacrificale? Se una civiltà che ha perso il segreto del vetro rubino fosse una civiltà che ha disimparato a immolare? Se quel villaggio situato in una Baviera preindustriale che non è di nessun tempo (forse è il diciottesimo secolo, forse molti secoli prima) e di nessun luogo (a comporne il paesaggio sono immagini prese in America, in Irlanda, in Svizzera) fosse simile al villaggio francese medievale descritto da Bataille, un organismo tenuto in vita dal cuore sacrificale dell’altare? Sarà forse per questo che il padrone della vetreria uccide ritualmente la serva Ludmilla, cercando nel sangue di una vittima il segreto del rubino? E la fragilissima barca a remi in cui, nella visione finale di Hias, i Dimenticati si avventurano nell’Oceano, al suono derisorio della canzone provenzale Chanterai por mon coraige, è forse un’ironia romantica sull’impossibilità dell’impresa illuministica, un nuovo canto d’Ulisse?
Basta spalancare davanti agli occhi la finestra del film, farsi inondare dalle sue immagini, e tutte queste speculazioni si disperdono come uccelli in fuga. Lo splendore figurativo che Herzog seppe ottenere con il direttore della fotografia Jörg Schmidt-Reitwein, uno splendore che non ha pari nella storia del cinema, toglie ogni voglia di almanaccare. Alberto Moravia ne restò ammaliato: “Il vero pregio di questo film, in cui la vicenda sembra raccontata in una vetrata di cattedrale gotica o in un dipinto di Rouault, sta nella bellezza delle immagini”. A rigore, i riferimenti pittorici più corretti sarebbero altri – gli interni a lume di candela di Georges de La Tour, i paesaggi ghiacchiati di Caspar David Friedrich, le scene di vita artigianale di Joseph Wright of Derby; vi si assiste anche alla piena resurrezione di un colore arcano, l’inafferrabile blu Patinir, che era stato avvistato l’ultima volta cinquecento anni prima sulle tele del pittore olandese – ma l’osservazione di Moravia coglieva l’aspetto decisivo: nelle vetrate delle cattedrali la luce era il principio attivo che sprigiona dall’intimità dei corpi anziché posarsi sulla loro superficie, e il fedele era inondato da una luce che poteva credere benevola. In Cuore di vetro ogni immagine possiede questa trasparenza, ma l’assedio luminoso giunge come una minaccia, perché la metafisica da cui discende il film non offre nessuna delle consolazioni del Cristianesimo medievale: è una metafisica della congiura divina, dove l’uomo è in balìa di potenze terrificanti, e il sacro si manifesta come paranoia, accerchiamento, delirio: una metafisica che trova solo in certe pagine di Elias Canetti o di María Zambrano parole all’altezza. Una metafisica, infine, che si rivela nel modo più esplicito in My Son My Son What Have Ye Done, il film di Herzog del 2009 prodotto da David Lynch.
“Dobbiamo dichiarare guerra santa a tutto ciò che vediamo ogni giorno in televisione”, annunciava Herzog in Werner Herzog Eats His Shoe, il cortometraggio di Les Blank in cui, per dar seguito a una scommessa, cucinava e mangiava una delle sue scarpe. Ma non era un videomessaggio alla Bin Laden. Si trattava e si tratta, come per Tertulliano, di disertare le immagini imperiali e depurare lo sguardo nel fuoco delle apocalissi: i deserti africani di Fata Morgana, l’isola di Guadalupa evacuata in attesa dell’eruzione, i pozzi di petrolio incendiati dopo la prima guerra in Iraq, Lanzarote coperta di cenere e di lava dopo le grandi eruzioni del 1730. Oggi, in quell’isola delle Canarie, un agghiacciante pulmino guida le comitive di turisti tra le concrezioni di lava costeggiando i crateri, mentre una voce registrata legge un’antica cronaca delle eruzioni con il sottofondo dell’Also Sprach Zarathustra di Strauss. Herzog non ci mette piede da quarant’anni, da quando vi girò Anche i nani hanno cominciato da piccoli. L’altra sua bestia nera è il turismo, un cancro che divora il pianeta. “Il turismo è peccato, viaggiare a piedi è virtù”, si legge nella Minnesota Declaration dell’aprile 1999. Bruce Chatwin lo definì “l’unica persona con cui potessi avere una conversazione da pari a pari su quello che chiamerei l’aspetto sacramentale del camminare”. È leggendario il viaggio a piedi da Monaco a Parigi che Herzog intraprese per propiziare la guarigione della sua amica Lotte Eisner. Meno noto – lo racconta Greenberg – è che pretendesse un’impresa simile da una ragazza che voleva collaborare a un suo film. “Vieni a piedi da Vienna a Monaco”, le disse. “Questo mi dirà quanto ci tieni al lavoro”. La ragazza si armò di scarponi e di cerotti, e undici giorni dopo arrivò a casa Herzog.
I luoghi non toccati dal turismo si vanno restringendo a vista d’occhio. Oggi una dozzina di tour operator conducono alle isole Skellig, i gruppi organizzati di gitanti vi sbarcano a ciclo continuo, scattano le loro fotografie e sono prelevati dai battelli. Herzog è costretto a inseguire le sue visioni in luoghi sempre più inaccessibili: il fondo degli oceani (The Wild Blue Yonder), l’Antartide (Encounters at the End of the World), la preistoria (Cave of Forgotten Dreams). Come si vede, non gli resta granché. Ma già che dice di sentirsi appena a metà della carriera, il migliore augurio che possiamo fargli per i suoi settant’anni è questo: che sia rapito da una civiltà extraterrestre, al riparo dai turisti, e possa assistere da un pianeta remoto al giorno in cui “questo mondo così vecchio e tutte le sue rinascite saranno bruciati in un unico incendio. Che grandioso spettacolo, allora!”.
Articolo uscito sul Foglio il 1 settembre 2012 con il titolo Cuore di vetro.
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