Tortura e iniziazione. Jorge Semprún, “Exercices de survie”
Presso certi popoli indiani dell’America Settentrionale, come i Kwakiutl e i Mandan, al giovane iniziando erano aperti, con un coltello, dei tagli sotto i muscoli delle braccia, attraverso i quali era fatta passare una corda; poi, sospesolo in aria, lo facevano vorticare finché non perdesse coscienza. La crudeltà delle iniziazioni rituali evoca nei moderni l’immagine familiare della tortura. Chissà che, rovesciando la clessidra della storia, i supplizi escogitati dalle nostre inquisizioni e polizie politiche non susciterebbero, nell’anziano di un’antica tribù, la memoria delle prove iniziatiche. I torturatori della Gestapo, per esempio, praticavano “la sospensione attraverso una corda fatta passare tra le manette. La cosa peggiore, in questo caso, era essere ammanettati dietro la schiena: si ha allora, quando si è sospesi, l’impressione di essere smembrati, squartati in eterno”. Così si legge negli Exercices de survie (Gallimard), libro postumo di Jorge Semprún, lo scrittore spagnolo sopravvissuto a Buchenwald e morto lo scorso giugno.
La tortura è un’iniziazione forzata, profana a profanatrice. Eppure, disse a Semprún il resistente francese Henri Frager, un giorno constateremo “con una sorta di allegro terrore, di strano giubilo, che possediamo tutti qualcosa in comune, un bene che ci è esclusivo, come un oscuro e raggiante segreto di gioventù o di famiglia, ma che d’altro canto ci distingue, ci separa su questo punto preciso dalla comunità dei mortali, da ciò che è comune ai mortali: il ricordo della tortura”. Essere torturati, ci si passi l’irriverenza del parafrasare Groucho Marx, è l’ammissione a un club di cui non avremmo voluto mai far parte. Tant’è vero che Semprún disertava i raduni degli ex combattenti (“Li evito come la peste!”) e si accontentava di condividere il segreto con pochi interlocutori: Frager prima di tutto, e dopo la sua morte Stéphane Hessel. Ma il dialogo più stretto è allacciato in queste pagine con Jean Améry, torturato a Breendonk nel 1943, e con le riflessioni sulla tortura che raccolse nel 1966 in Intellettuale a Auschwitz. Entrambi, Semprún e Améry, avevano una formazione filosofica; entrambi, attraversata la prova della tortura e dei campi, si congedarono da certe pie astrazioni della filosofia con rabbia impaziente e sarcastica. Ma non cessarono mai di filosofare intorno a quel segreto iniziatico che gli era stato impresso nella carne contro la loro volontà, come nella colonia penale di Kafka.
Il torturato, scrisse Améry, “sente il proprio corpo come mai aveva fatto prima. La sua carne si realizza totalmente nell’autonegazione”. Semprún poté sperimentare la verità di queste parole: “È a Auxerre, nella stazione della Gestapo, sotto tortura, che ho veramente preso coscienza della realtà del mio corpo. Prima, il mio corpo e io non formavamo che un essere indistinto: ero il mio corpo, senza saperlo. Ed esso era me”. Ad Auxerre, invece, era “come se m’incarnassi nel dolore, come se questo mi facesse scoprire, insieme al mio corpo, la sua fragilità, le sue miserie, la sua finitudine. Ho sentito a tal punto il mio corpo che esso è divenuto, in qualche modo, un’entità separata, forse autonoma – pericolosamente autonoma – come un essere-altro”.
Per Améry la rivelazione fu quella di uno sradicamento irrevocabile, percepito nel fuoco freddo del risentimento: “Chi ha subìto la tortura non potrà mai più sentirsi a casa nel mondo”. Semprún, al contrario, in quella improvvisa coscienza di un corpo ostile scoprì che la vittima “vede moltiplicarsi i propri legami con il mondo, vede radicarsi, ramificarsi, proliferare le ragioni del suo essere a casa nel mondo”. E già che, pur nella solitudine del supplizio, si resiste solo prestando fedeltà a qualcosa che sta al di là di noi, quella della tortura non è “un’Erlebnis egotista o narcisistica”, ma “un’esperienza di fraternità, non c’è parola più appropriata”.
Il torturatore, lui, non potrà sentirsi mai più a casa nel mondo.
Articolo uscito sul Foglio il 19 gennaio 2013 con il titolo Il filosofo e la tortura
non vorrei esagerare, ma caratteristiche simili all’esperienza descritta sia da Semprun sia da Amery è quella che che fanno le donne nel parto, il parto è una sorta di tortura in cui si provano sensazioni molto simili: da un lato la consapevolezza estrema di incarnarsi nel corpo, dall’altro di vedere moltiplicarsi i propri legami con il mondo. forse anche per questo le donne sono più consapevoli di certe brutalità e quindi più pietose (spero)
Jonuzza
gennaio 31, 2013 at 8:32 am