Posts Tagged ‘Jean Améry’
È finita la commedia. Imre Kertész, 1929-2016
Diceva Martin Amis, capovolgendo il motto di Theodor W. Adorno in una formula altrettanto sentenziosa e in fin dei conti altrettanto falsa, che Auschwitz non ha reso impossibile la poesia ma la risata. C’è da supporre che Imre Kertész, che considerava la frase di Adorno su poesia e barbarie “una fialetta puzzolente morale” (così nell’autobiografia in forma di dialogo Dossier K.), si sarebbe turato il naso anche davanti alla variazione di Amis. Il problema infatti non è accostare la comicità in quanto tale ad Auschwitz. Tutto sta a capire chi ride, quando ride e soprattutto come ride, perché non tutte le risate sono uguali. Leggi il seguito di questo post »
Tortura e iniziazione. Jorge Semprún, “Exercices de survie”
Presso certi popoli indiani dell’America Settentrionale, come i Kwakiutl e i Mandan, al giovane iniziando erano aperti, con un coltello, dei tagli sotto i muscoli delle braccia, attraverso i quali era fatta passare una corda; poi, sospesolo in aria, lo facevano vorticare finché non perdesse coscienza. La crudeltà delle iniziazioni rituali evoca nei moderni l’immagine familiare della tortura. Chissà che, rovesciando la clessidra della storia, i supplizi escogitati dalle nostre inquisizioni e polizie politiche non susciterebbero, nell’anziano di un’antica tribù, la memoria delle prove iniziatiche. I torturatori della Gestapo, per esempio, praticavano “la sospensione attraverso una corda fatta passare tra le manette. La cosa peggiore, in questo caso, era essere ammanettati dietro la schiena: si ha allora, quando si è sospesi, l’impressione di essere smembrati, squartati in eterno”. Così si legge negli Exercices de survie (Gallimard), libro postumo di Jorge Semprún, lo scrittore spagnolo sopravvissuto a Buchenwald e morto lo scorso giugno. Leggi il seguito di questo post »
Elogio della libera morte. Su Jean Améry
Ogni suicidio, scrisse Balzac, è un poema solenne di malinconia: “Dove troverete, nell’oceano della letteratura, un libro che emerga e possa competere in genialità con questo trafiletto: ‘Ieri alle quattro una giovane donna si è buttata nella Senna dall’alto del Ponte delle Arti’”. Già, dove? Le sfide sono fatte per essere raccolte, ancorché con qualche secolo di ritardo. La pelle di zigrino fu pubblicato nell’agosto del 1831. Esattamente un secolo e un mese più tardi, nel settembre del 1931, il mensile Modern Mechanix, una delle tante riviste americane d’informazione tecnica e consigli per il fai-da-te, ospitò un sublime trafiletto dal titolo “Precaution for Would-be Suicides”: “Se state meditando di commettere suicidio, assicuratevi di prendere questa precauzione: usate proiettili nuovi. I proiettili vecchi sono senz’altro carichi di germi che potrebbero infettare la ferita e causarvi la morte. Se usate proiettili nuovi, potreste riprendervi dal tentato suicidio”. Altro che poema solenne di malinconia, caro Balzac, questo è un romanzo distillato in cinquanta parole. E che romanzo! Un romanzo esilarante, tragico, surreale, grottesco. Il suo apparente paradosso – che colui che vuol togliersi la vita debba aver cura di non contrarre infezioni mortali – presuppone in effetti una scissione, una fenditura che percorre tutto l’essere dell’aspirante suicida, tra la logica della vita e la logica della morte, tra un corpo che per quanto si tenti di domarlo è riottoso fino all’ultimo e non vuol saperne di morire, e una coscienza che ha deliberato contro il miglior consiglio delle viscere, contro l’inesausto e fedele affaccendarsi degli organi. Che si possa marciare uniti, anima e corpo, al traguardo supremo dell’estinzione, è un’ipotesi che i redattori di una rivista di fai-da-te, che immaginiamo pragmatici, ben posati, restii alle intemperanze liriche, non vogliono prendere neppure in esame. Per lo sfrigolìo e le scintille prodotte da questo cortocircuito logico-esistenziale non c’è rimedio tecnico: la raccomandazione contraddittoria si limita a render conto delle due direzioni nelle quali è strattonato chi si colloca sulla soglia tra la vita e la morte. Leggi il seguito di questo post »
Heimat, una parola-pappagallo nel cielo sopra Berlino
I cieli dello spirito sono affollati di pappagalli. Parole-pappagallo, così le chiamava Paul Valéry: le ripetiamo ad ogni occasione, persuasi che abbiano un senso preciso, ma a ben vedere non sono che “creazioni statistiche” alimentate dai quotidiani commerci dei parlanti. Provate ad abbatterne una, a esaminarne la carogna da vicino, e la vedrete disfarsi come un miraggio. La stessa parola spirito, beninteso, è “un enorme pappagallo”, e così pure universo, natura o destino. Nel cielo sopra Berlino volteggia da secoli un pappagallo di nome Heimat, e di recente lo si avvista così spesso che si è guadagnato l’ultima copertina dello Spiegel: “Was ist Heimat?”, e cioè “Che cos’è…”. E qui sorgono i primi grattacapi. Patria? Terra natia? È quel che suggeriscono i dizionari, ma sono tutte approssimazioni per difetto.
Lo Spiegel prende spunto da due notiziole cinematografiche: nelle sale arriverà a breve il meglio di Deutschland von Oben, serie di documentari della ZDF sulle città, le campagne e le foreste tedesche viste dall’alto; e il regista Edgar Reitz sta lavorando al quarto capitolo della monumentale saga Heimat, che stavolta avrà per tema l’emigrazione tedesca in Brasile nell’Ottocento. E in effetti, da qualche tempo i destini della Heimat sono cuciti a filo doppio con quelli del cinema: il lettore che volesse raccapezzarsi sulla questione (e avesse, per avventura, una cinquantina di ore libere) farebbe bene a guardarsi per intero la trilogia di Reitz, inaugurata nel 1984, a cui si deve la fama internazionale di questa parola che è tedesca fino al midollo. Dalle vicende dei Simon, una famiglia che guarda scorrere tutta la storia novecentesca della Germania dall’immaginario villaggio di Schabbach, nella regione renana dell’Hunsrück, potrà tirare alcune sommarie conclusioni: 1) che la Heimat è un idillio campestre, e non attecchisce bene tra i fumi della grande città; 2) che è un estremo rifugio d’innocenza, soggetto ai cicli della natura più che alla freccia della storia, dove la politica arriva come un’eco remota (è materna, la Heimat: a chiamarti in guerra, e a costruire i campi di sterminio, è semmai la Vaterland, la terra dei padri); 3) che la Heimat, come il villaggio di Schabbach, non esiste in nessun luogo. Leggi il seguito di questo post »
La scrittura o la vita. Il grande viaggio di Semprún
La scrittura o la vita. Sembra un dilemma ozioso da letterati o da esteti, tra un Mallarmé per il quale tutto ciò che esiste è destinato a finire in un libro e un Rimbaud che volta le spalle allo scrittoio e si lancia a trafficare armi in Abissinia. Ma per chi abbia attraversato l’universo concentrazionario e i suoi campi, la scelta tra la scrittura e la vita può caricarsi di ben altra pena, di ben altro rovello. Papavero e memoria, Mohn und Gedächtnis, per usare i termini di Paul Celan: il fiore dell’oblio e la fedeltà interiore a una vicenda così terribile che, se vi s’indulge troppo nei pensieri e nei sogni, impedisce il corso normale della vita. A Jorge Semprún, scampato a Buchenwald, il dilemma si manifestò con evidenza inaggirabile presso la tomba del poeta spagnolo César Vallejo, nel cimitero di Montparnasse: “Io non possiedo altro che la mia morte, che l’esperienza della mia morte, per dire la mia vita, per esprimerla, portarla avanti”, raccontò in La scrittura o la vita, pubblicato in Francia nel 1994. “Bisogna che costruisca della vita con tutta questa morte. E il modo migliore per riuscirvi è la scrittura. Ma la scrittura mi riconduce alla morte, mi rinchiude in essa asfissiandomi”. Leggi il seguito di questo post »
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