Archive for the ‘Shoah’ Category
Himmler, Wiesel e la gloria
Molti personaggi storici sono noti per una sola frase, ed è una frase che di solito non hanno detto. Maria Antonietta e le brioches, Lenin e gli utili idioti, Goebbels e la pistola come antidoto alla cultura: la strada del nozionismo è lastricata di apocrifi. Può capitare però che una frase sia stata detta e non detta, o meglio detta in un modo e trascritta in un altro, con variazioni piccole ma decisive. Una delle citazioni più ricorrenti sulla Shoah viene da un discorso segreto agli alti gradi delle SS che Heinrich Himmler tenne a Posen i primi di ottobre del 1943: “Questa è una pagina gloriosa della nostra storia che non è mai stata scritta né mai lo sarà”, si legge nella trascrizione agli atti del processo di Norimberga. Leggi il seguito di questo post »
È finita la commedia. Imre Kertész, 1929-2016
Diceva Martin Amis, capovolgendo il motto di Theodor W. Adorno in una formula altrettanto sentenziosa e in fin dei conti altrettanto falsa, che Auschwitz non ha reso impossibile la poesia ma la risata. C’è da supporre che Imre Kertész, che considerava la frase di Adorno su poesia e barbarie “una fialetta puzzolente morale” (così nell’autobiografia in forma di dialogo Dossier K.), si sarebbe turato il naso anche davanti alla variazione di Amis. Il problema infatti non è accostare la comicità in quanto tale ad Auschwitz. Tutto sta a capire chi ride, quando ride e soprattutto come ride, perché non tutte le risate sono uguali. Leggi il seguito di questo post »
Contro il male della banalità
Ogni volta che si parla di banalità del male (ed è capitato spesso, in questi giorni, per via del 27 gennaio e del nuovo film sul processo Eichmann) mi torna in mente una pagina dell’autobiografia di Raul Hilberg, The Politics of Memory. Il bersaglio era Hannah Arendt e la sua immagine del tenente colonnello delle SS come un burocrate ottuso e disciplinato. Hilberg ricostruiva per sommi capi la stupefacente carriera di Eichmann, l’astuzia e la diplomazia fuori dal comune che dovette impiegare per portare a termine le sue atroci imprese, e concludeva grosso modo così: vedo il male, altroché, ma la banalità proprio non la vedo.
Mi torna in mente questa pagina non tanto per la questione della banalità del male ma per quella, assai meno importante, del male della banalità. Tutte le volte che la cultura pop – musica, cinema, tv, fumetti, pubblicità, social network – si accosta alla Shoah o si serve dei suoi simboli, l’accusa di “banalizzazione” è in agguato. Non so chi sia stato il primo a usarla. Di certo il più influente è stato Elie Wiesel nella sua requisitoria sul New York Times contro la miniserie Holocaust nel 1978, che s’intitolava appunto “Trivializing the Holocaust”. Poi la parola è diventata una specie di formula liturgica un po’ ovunque e soprattutto in Francia, ossia nella patria di quel Flaubert che avrebbe potuto metterla in appendice al dizionario dei luoghi comuni: “Film sulla Shoah: se piacciono al pubblico, dire che banalizzano l’indicibile”. Leggi il seguito di questo post »
Sesso, umor nero e metafisica: Martin Amis torna ad Auschwitz
Il nuovo romanzo di Martin Amis, The Zone of Interest, è una macchia di Rorschach. Chi volesse farsene un’idea a partire da quel che legge sui giornali si troverebbe nella stessa condizione di un poliziotto che debba disegnare l’identikit di uno sconosciuto mettendo insieme testimonianze che lo descrivono come uno spilungone, quasi nano, obeso ma segaligno, e poi biondo, con i capelli di un nero corvino, anzi del tutto calvo. Il poveretto penserà di avere a che fare con un mutante o un mostro mitologico. È grosso modo l’impressione che si ricava dalla lettura delle recensioni a The Zone of Interest apparse sulla stampa britannica, israeliana, tedesca, americana (negli Stati Uniti il romanzo è appena uscito). La cosa certa è che Amis ha scritto, vent’anni dopo Time’s Arrow, un nuovo romanzo sulla Shoah. Per il resto, c’è chi assicura che si tratta di una profonda meditazione sul perché di Auschwitz, anzi sull’impossibilità di trovare un perché, nel solco di Primo Levi; c’è chi lo descrive come una commedia pervasa di un umor nero feroce e dissacratore, forse un po’ stonato in tempi di antisemitismo risorgente; c’è chi dice che il libro offre una traduzione romanzesca dell’idea arendtiana della “banalità del male” e del genocida come impiegato; c’è chi ne parla come di una storia d’amore che inclina al sentimentalismo kitsch; c’è chi lo presenta come un intreccio di atrocità ed erotismo al limite della pornografia, popolato di comandanti perversi e guardiane sadiche che hanno un tocco di “kinky lesbianism”. È possibile che un libro sia al tempo stesso La notte di Wiesel, Le benevole di Littell e Ilsa la belva delle SS? Leggi il seguito di questo post »
Le lolite del Dr. Mengele. “The German Doctor”
Adolf Eichmann fu il più laconico stroncatore di Lolita. “Decisamente un libro sgradevole”, disse all’agente di polizia che gli aveva dato da leggere il romanzo di Nabokov per passatempo, quand’era sotto processo a Gerusalemme. La recensione del tenente colonnello al film di Kubrick non la leggeremo mai (Lolita debuttò a New York pochi giorni dopo la sua impiccagione), ma non c’è motivo di immaginarla più generosa. Cos’hanno da spartire, in fin dei conti, un alto burocrate dello sterminio e un cacciatore incantato di ninfette? Nulla, se non la necessità di inventarsi una difesa davanti a una Corte, e c’è pure chi ha suggerito che Humbert Humbert usa gli stessi espedienti retorici dei gerarchi nazisti a Norimberga. Una nuova coppia di romanzo e film rischia di ingarbugliare un po’ le cose. Dell’uno e dell’altro è autrice l’argentina Lucía Puenzo. Il medico tedesco (Guanda) fa di Josef Mengele uno Humbert Humbert nazista, oscuramente attratto da una dodicenne che si chiama, guarda caso, Lilith. Con una premessa come questa, capite bene che la voragine del kitsch più sgomentevole sta lì spalancata, famelica, e Puenzo – che come regista non è Kubrick e soprattutto come scrittrice non è Nabokov – fa quel che può per non finirne inghiottita. All’inizio del film, The German Doctor, l’ex nazista fuggiasco in Patagonia è ammaliato da due gambette avvolte in calze di lana che si dibattono per intrufolarsi in un furgoncino. Il romanzo fa di peggio, e la piccola Lilith appare subito come “un personaggio mitologico, a metà fra ninfa e folletto”, a cui Mengele, grigio e intristito (l’autrice gli imprime anche un tocco dello Aschenbach di Morte a Venezia), vuol mettere le mani addosso – ma per misurarle il cranio.
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Lager Gomorra. Roberto Saviano lettore di Primo Levi
Per diventare cuoco ad Auschwitz devi saper tirare di boxe, spiegò a Primo Levi un medico ungherese dopo l’arrivo nel campo, perché ti capita di dover stendere a pugni chi allunga le mani sui viveri. Chissà, dopo un tale apprendistato, come Levi avrebbe schivato il micidiale uno-due che gli è piovuto addosso in questi giorni. Prima Gad Lerner che gli mette in bocca l’espressione “razza ebraica”, un colpo sotto la cintola di quelli che l’arbitro dovrebbe espellerti da tutti i ring del regno; poi l’abbraccio di un pugile più leale, Roberto Saviano – ma un abbraccio nella boxe è insidioso, serve a impacciare i movimenti dell’avversario. L’occasione è l’audiolibro di Se questo è un uomo letto da Saviano, di cui Repubblica ha anticipato, il 6 novembre, uno stralcio dell’introduzione. Prendiamone una frase, una citazione di Philip Roth su Levi: “Dopo averlo letto non puoi più dire di non esserci stato ad Auschwitz. Non vieni soltanto a conoscenza di quello che è successo, ma sei lì”. Davvero Roth disse questa frase? Lo stesso Saviano ne dubita, tanto che confessò a Enzo Biagi di crederla una leggenda. Ma è una leggenda che gli è cara, e che ama ripetere spesso, anche in una variante estrema (non si può dire “di non essere stati in fila fuori da una camera a gas”). E non c’è da stupirsene, già che questo Roth dal suono apocrifo sembra tagliato su misura per la retorica della testimonianza dell’autore di Gomorra: l’idea cristologica dello scrittore che si cala negli inferi con tutti e cinque i sensi e ne emerge per donare ai lettori la “presenza reale” della parola. Leggi il seguito di questo post »
La Shoah e l’immagine del sublime
Rappresentabile o irrappresentabile: attorno al grande dilemma e ai suoi corollari ruota instancabilmente, da qualche decennio, una gran parte dei discorsi sulla Shoah e la cultura visuale. La riflessione accademica, la retorica commemorativa ufficiale, il dibattito pubblico e la divulgazione giornalistica sembrano non poter fare a meno di questa nozione elusiva, una chimera teorica che accorpa interdetti religiosi, princìpi di estetica filosofica, rivendicazioni artistiche, fantasmi psicoanalitici, tenebre mistiche, precetti morali, speculazioni epistemologiche e più modeste preoccupazioni di buon gusto, coprendo un’area che va «dal divieto mosaico della rappresentazione alla Shoah, passando per il sublime kantiano, la scena primaria freudiana, il Grand Verre di Duchamp o il Quadrato bianco su fondo bianco di Malevic». Di questa nebulosa semantica, o se più piace di questa catena di somiglianze di famiglia, non agganceremo che un anello, quello del sublime. In che modo il sublime è connesso alla Shoah e alla sua rappresentazione? La pagina più nota e commentata, al riguardo, è il paragrafo di Le Différend dove Jean-François Lyotard paragonava la Shoah a un terremoto così potente da distruggere con sé gli strumenti di misurazione, e introduceva, rimeditando l’estetica di Immanuel Kant, l’idea di un ‘sublime negativo’ connesso a questo sisma di magnitudine incommensurabile. Continua a leggere sulla rivista Arabeschi
Tortura e iniziazione. Jorge Semprún, “Exercices de survie”
Presso certi popoli indiani dell’America Settentrionale, come i Kwakiutl e i Mandan, al giovane iniziando erano aperti, con un coltello, dei tagli sotto i muscoli delle braccia, attraverso i quali era fatta passare una corda; poi, sospesolo in aria, lo facevano vorticare finché non perdesse coscienza. La crudeltà delle iniziazioni rituali evoca nei moderni l’immagine familiare della tortura. Chissà che, rovesciando la clessidra della storia, i supplizi escogitati dalle nostre inquisizioni e polizie politiche non susciterebbero, nell’anziano di un’antica tribù, la memoria delle prove iniziatiche. I torturatori della Gestapo, per esempio, praticavano “la sospensione attraverso una corda fatta passare tra le manette. La cosa peggiore, in questo caso, era essere ammanettati dietro la schiena: si ha allora, quando si è sospesi, l’impressione di essere smembrati, squartati in eterno”. Così si legge negli Exercices de survie (Gallimard), libro postumo di Jorge Semprún, lo scrittore spagnolo sopravvissuto a Buchenwald e morto lo scorso giugno. Leggi il seguito di questo post »
Per il Giorno della Memoria, nasce lo Holocaust Visual Archive
Da oggi è in rete lo Holocaust Visual Archive, blog per studiosi e curiosi (filiis, amicis, civibus avrebbe detto il conte Monaldo) a cura di Guido Vitiello e Andrea Minuz. Il blog (in inglese) raccoglie le immagini della Shoah disseminate nel vasto panorama della cultura visuale, dove cinema, cultura pop, arte contemporanea e cultura della memoria s’incontrano. Troverete sequenze e locandine di film, spettacoli e serie televisive, copertine di libri e di riviste, installazioni e opere d’arte, brochure di musei, fumetti, cartoni animati, graphic novel, pubblicità, fotografie e poi chissà.
Andrea Minuz è l’autore di La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico (Bulzoni 2010). Io ho da poco pubblicato, con Ipermedium libri, Il testimone immaginario. Auschwitz, il cinema e la cultura pop. Il blog è aggiornato due volte a settimana. Visitate, diffondete, suggerite.
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