Guido Vitiello

Confessioni di un bovarista liberale

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9788861923744La sera andavo anch’io in via Veneto, ma perché ero uno sfigato. Non c’erano, ad aspettarmi, Pannunzio e Libonati al caffè Rosati, anzi non c’era proprio il caffè Rosati. C’era il fast food di piazza Barberini tra i cui miasmi, frammisti alle zaffate calde e umide spiranti dalla grata della metropolitana, bazzicavo il più delle volte da solo, all’occasione in compagnia di un nerd italogiapponese. Poca cosa, vedete bene: non c’è materia da romanzo. La sera andavo in via Veneto perché c’era una libreria aperta fino a notte, che non sarà stata la Rossetti, chiusa da chissà quanto, ma era l’unico luogo dove potessi coltivare quella forma tipicamente insocievole della sfiga adolescenziale che è la bibliomania. Arrivato tardi per lo “snobismo liberale” di Elena Croce, non mi restava che il bovarismo liberale, il ricongiungimento tutto libresco a una comitiva di fantasmi, a spasso per una via anch’essa alquanto spettrale. Voglio credere, o forse sperare, che il mio caso non sia isolato. Sospetto anzi che per altri liberali figli di liberali la generazione del Mondo abbia rappresentato, mutatis mutandis, quello che per i coetanei più a sinistra sono stati i padri sessantottini. Loro erano stati giovani al momento opportuno, baciati dal kairos, avevano potuto coniugare la persuasione, in sé un po’ frigida, di essere dalla parte giusta con il privilegio mondano di godersi la bella o la dolce vita di una stagione fatata. È naturale che i venuti dopo fossero presi nella morsa di un sentimento ambivalente: la venerazione per quel mondo eroico e scomparso, e il fastidio per il querulo narcisismo generazionale dei reduci e dei memorialisti.

Questo groppo sentimentale mi ha preso di nuovo alla gola leggendo il bel libro postumo di Edgardo Bartoli, La civiltà del malumore. Roma e l’eterno conformismo italiano (Elliot). Bartoli, passato per il Mondo e approdato a Repubblica, battezza malumore quella nota di insofferenza e intransigenza, di sprezzatura e signorilità che distingueva i liberali del circolo pannunziano, “un lusso umanistico che quei tempi primitivi ancora consentivano”. È incantevole il suo ritratto di quel piccolo club di schizzinosi eleganti, e del loro litigioso amore per la vasta provincia che è Roma; è incantevole anche quando è irritante, perché il disdegno aristocratico di Bartoli è sempre temperato dall’ironia, dalla consapevolezza dei brutti scherzi che gioca la memoria, da un senso della bellezza che viene prima di ogni giudizio.

Quasi non c’è pagina che non racchiuda notazioni memorabili sulla città, sul suo carattere e sul carattere nazionale che, per quel poco che esiste, si rispecchia nella capitale. Alcune tra le più felici sono dedicate proprio a via Veneto, “teatrino a posti numerati e posti in piedi, dove ognuno era attore e spettatore al tempo stesso, secondo la regola della commedia italiana: vivere e guardarsi vivere. La rovinarono scambiandola per un eldorado internazionale di vizi e di piaceri, ignorando che ciò che impedisce a Roma di essere seriamente dissoluta è il suo carattere casereccio e sbracato che trasforma anche la corruzione in sguaiataggine”.

Se un redivivo “uomo del malumore” tornasse oggi ai luoghi delle sue antiche frequentazioni, suppone Bartoli, si sentirebbe spaesato, ma soprattutto perché i suoi simili si sono rintanati in casa, “non frequentano salotti, non hanno trattorie abituali dove riconoscersi, si vedono pochissimo in giro forse perché non esistono più le redazioni, i caffè, le librerie dove incontrarsi”. E allora cosa impedisce di immaginare che in decine di case romane abitino altrettanti Flaiano, Maccari, Brancati, ciascuno ignaro dell’esistenza dell’altro? Non so se c’è materia da romanzo, ma è quanto basta per alimentare le fantasticherie e gli struggimenti di un bovarista liberale.

Articolo uscito sul Foglio l’11 gennaio 2014 con il titolo Via del malumore

Written by Guido

gennaio 12, 2014 a 12:46 PM

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