Il processo per il processo. Un incubo giudiziario
Un corsivo di Giorgio Manganelli, scritto in margine al processo Valpreda e raccolto negli Improvvisi per macchina da scrivere, mi persuade una volta di più che l’attualità è un incubo da cui dobbiamo destarci, e che i giornali del futuro saranno lunghissimi rotoli di lanci d’agenzia, scarni e sibillini, circondati da glosse di moralisti secenteschi sul vano ripetersi di tutte le cose. Dicevo: in margine al processo Valpreda, e alle sue migrazioni tra le sedi di Roma, Milano e Catanzaro; ma accade che il margine di un processo combaci con il margine di innumerevoli altri, e che questa sia più di una metafora. Il lettore tenga a mente gli interminabili, dilatorii processi sulle stragi e sui misteri d’Italia, l’orizzonte della verità che si allontana sempre di un passo, come in un paradosso di Zenone; tenga a mente il novissimo Capaci bis che affianca e ingloba il Borsellino quater, e la strana costellazione della trattativa, che qualcuno ha paragonato a una matrioska dove il processo maggiore contiene processi minori in cui gli stessi imputati, gli stessi pentiti, gli stessi testimoni sono ascoltati sugli stessi fatti e come rimasticati in eterno; tenga a mente tutto questo e legga Manganelli:
“È ragionevole supporre che codesto processo, via via aggregandosi altri procedimenti similari, affini, opposti, divergenti, consanguinei, contemporanei, precedenti, successivi, paralleli, coniugi, divorziati, seguaci, dovrà lentamente, cigolando della sua stessa inaudita mole, procedere di sede in sede, ad ognuna conferendo il prestigioso titolo di capitale totale del giure. Si moltiplicheranno i giudici, i testimoni, i supertestimoni, i sottotestimoni, le persone che passavano per caso, che non ci passavano per niente, verranno gradualmente coinvolti idraulici, pittori di bandiere, periti postali, orientalisti in pensione, allievi tamburini; prolifereranno avvocati di null’altro consapevoli che di quell’inaudito, sterminato, sconfinato processo. (…) Si costruiranno castelli finto gotico per accogliere i documenti essenziali. Inoltre, dovrebbe essere ovvio che, giunto ad un certo livello di densità, di massa, un processo siffatto non è più arrestabile; come un gigantesco ‘buco nero’ nello spazio, esso attira a sé e ingloba nel suo nulla via via tutto ciò che gli si accosta. Dapprima si tratterà di persone coinvolte in contravvenzioni per sosta vietata, risse per donne, smercio di pesche e mele mezze e vizze; poi verranno arruolati omicidi di contesse, ladri di dirigibili, falsari di locomotive; saltando oltre la barriera spaziale, la Romania verrà persuasa a cedere un signore mal rasato che nel 1937 attraversò una strada secondaria a dispetto del semaforo rosso; infine, superando la barriera del tempo, verrà associato il processo per l’uccisione di Enrico IV re di Francia, verrà riaperta l’istruttoria sulla morte di Mozart, e quella sui decessi sospetti di Alessandro Magno, Umberto I, e si porrà il quesito se l’Assunzione della Madonna sia compatibile con i regolamenti sulla utilizzazione dello spazio cosmico. Dopo tutto, quello che conta è la verità”.
Ai cronisti il compito di trovare un bandolo in questi labirinti processuali, di decrittare il papiro delle notizie che si srotola come da un’ipotetica telescrivente. Io di meglio non posso che annotare a margine le considerazioni di un moralista classico dei tempi nostri, l’avvocato e scrittore calabrese Domenico Marafioti. Si era persuaso, trovandone conferma nelle pagine di Salvatore Satta e in un romanzo di Salvatore Mannuzzu, Procedura, che il processo è un atto senza scopo e senza sbocco; che lo si fa per processare, e per nient’altro; e che la vera ragione del processo è appunto il procedere, la verità essendo per lo più un miraggio. Mi mise a parte di tutto questo, quando lo incontrai, come se indicasse il gorgo in cui confluivano, e si perdevano, i suoi decenni di vita forense e alcuni secoli di pessimismo meridionale. Da allora mi capita di ripensare alle sue parole, e di scrollare la testa per risvegliarmi dal cattivo sogno delle cronache; ma poi devo scrollarla due volte e risalire alla superficie dei giorni, atterrito dalla visione di quel buco nero che tutto inghiotte, procedendo.
Articolo uscito sul Foglio il 31 maggio 2014 con il titolo Processi a margine
Egregio sig. Vitiello,
premesso che il processo deve cercare solo la verità processuale, che può pacificamente non corrispondere alla verità storica (banalmente dalla mancanza di una ricevuta di pagamento emergerà una verita processuale diversa da quella storica), non capisco se il Suo articolo abbia ad oggetto le regole processuali (se del caso sarebbe opportuno indicare quali) o l’esistenza stessa del diritto processuale (solo quello penale, pare di capire); concludo dicendo che la ragione di esistenza del processo è quella di garantire l’applicazione di regole di diritto condivise e, tramite essa, la pace sociale. Altro non c’è e se qualcuno attribuisce o invoca altre funzioni per il processo (o la soppressione del processo) è il caso di preoccuparsi.
david
giugno 3, 2014 at 10:45 am
Manganelli – oltre ad avere un’idiolalìa tanto leggera quanto icastica – era coraggioso; si scagliava contro la magistratura manettara quando era solo un centro di potere che non era di contrasto ma funzionale e di garanzia rispetto alla classe politica. Diversamente, agitarsi oggi con attualissima bonomia a critica dei giudici parrucconi è molto facile: basta alludere continuamente all’inevitabile umanità di ogni corruttela, mentre la si oppone al cipiglio dei presunti garanti dell’Irreprensibile. Ma questa non è critica sociale, come quella del grande Giorgio; è banale difesa dello status quo, peraltro ammantata di costante e irresistibile tono da divertissement – fintamente, molto fintamente disincantato.
quasiscrive
giugno 30, 2014 at 12:34 PM