I due corpi del presidente, e un solo paio di mutande
All’alba del caso Ruby mi imbattei non ricordo dove in due sagome di cartone da ritagliare, come le paper dolls su cui le bimbe giocano a incollare vestitini anch’essi di carta. La prima raffigurava un Berlusconi in canottiera e mutande; la seconda il suo tipico doppiopetto blu, con tanto di linea tratteggiata per le forbici. Era allora di moda citare (per lo più a sproposito) gli studi di Kantorowicz sulla regalità medievale, e così commentai: “Eccoli, i due corpi del re!”. Un amico arguto aggiunse: “Tutto sta a capire a quale dei due corpi appartengono le mutande”. Il dilemma, in effetti, era tutto lì: le mutande di Berlusconi riguardavano il suo corpo di privato cittadino o erano inseparabili dalla sua figura pubblica, dalla sua dignitas, dal suo corpo politico? Le reazioni al caso Ruby ingarbugliarono le cose: a destra si sostenne che le notti di Arcore erano affari privati, eppure le mutande furono issate fieramente sul pennone come un nuovo stendardo; a sinistra si oscillò tra una campagna scandalistica affidata al braccio secolare della stampa fiancheggiatrice e una delega pavida alla magistratura inquirente, perché frugasse nel cassetto dell’altrui biancheria con strumenti giuridici neutrali. Fu lo scontro tra due mezze ipocrisie: perché era senz’altro politico il processo alle mutande di Berlusconi, e perché erano intimamente politiche anche quelle mutande. Come pretendere che dall’epopea di un leader che aveva dissolto ogni argine tra pubblico e privato fosse stralciato il capitolo sul sesso, e solo quello?
Un libro appena uscito della filosofa femminista e firma del “manifesto” Ida Dominijanni, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi (Ediesse), illumina bene la seconda ipocrisia, un po’ meno bene la prima. Il saggio è felicemente intempestivo, arriva cioè dopo l’assoluzione in appello, in una tregua in cui è più facile trattare l’affaire Ruby da un punto di vista tutto politico. Confesso che l’ho affrontato come si affronta un crostaceo, lottando a ogni pagina con un esoscheletro indigesto – una selva di gerghi attinti a Foucault, Lacan, Zizek – nell’ansia di arrivare alla polpa. E la polpa c’è, anche se a riassumerla in poche righe farei torto a un libro intelligente e spesso imprevedibile. Basterà dire che nelle “cene eleganti” Dominijanni non vede gli eccentrici svaghi di un impresario televisivo diventato politico né lo specchio dell’ennesima “anomalia” italiana; piuttosto, quell’intreccio di sesso, denaro e potere le pare la rivelazione quasi teatrale di un nuovo modello di sovranità, che non riguarda solo l’Italia ma di cui l’Italia recente è stata un esempio iperbolico. La sessualità è “un cristallo riflettente dell’intero sistema berlusconiano”, retto da “un’illusione di potenza, sessuale e politica, a copertura di un inconfessabile fantasma d’impotenza, politica e sessuale”.
Non mi avventuro in questo terreno psicopolitico, di cui istintivamente diffido, ma l’idea delle cene di Arcore come rivelazione scenica di una verità politica mi alletta molto, seppure in tutt’altra chiave. E mi vien da pensare che il destino di tanti tentativi di modernizzazione, in Italia, è spesso quello di risolversi in teatro, in rettorica, o – lo diceva Aron sul maggio parigino – in psicodramma; e che dunque la nostra storia è condannata a svolgersi in buona parte come storia interiore, storia di alterni climi d’opinione, di infatuazioni, di passaggi tutti simbolici, di états d’esprit che si avvicendano e si consumano sul palco di un sistema immobile. La mondanità berusconiana offre lo spettacolo di una stagione in cui la rivoluzione liberale è stata recitata più che intrapresa, cantata più che combattuta, intrappolata nel corpo (duplice o meno) di un re e incapace di uscirne. Spettasse a me la regia, allestirei un teatro in miniatura dove la sagoma di cartone di un leader (politicamente) impotente, diciamo pure in mutande, non può far di meglio che predicare il laissez-faire nella forma di una parodia burlesque: “La patonza deve girare”.
Articolo uscito sul Foglio il 6 dicembre 2014 con il titolo Delle mutande
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