Posts Tagged ‘Silvio Berlusconi’
Ho fatto la spesa per Zagrebelsky (Mani bucate, 18)
Ho fatto la spesa per il professor Zagrebelsky. Non parlo di generi di prima necessità – pacchi di pasta, conserve, tonno in scatola, tè al gelsomino. Gli ho comprato un paio di libri, per via di un sospetto che, come vedrete, ho qualche ragione di coltivare. In breve, mi sono detto: Zagrebelsky si era così appassionato alla faccenda dell’unto del Signore, alla discesa in campo come metafora soteriologica, aveva scritto pagine dottissime sulla teologia politica di Silvio Berlusconi. Com’è che non riesce a versare una stilla d’inchiostro, ora che un altro leader chiede ai suoi seguaci di chiamarlo l’Elevato (così Grillo a Palermo; ma aveva fatto lo stesso l’anno scorso a Imola) mentre questi, in responsorio, scandiscono le quattro sacre sillabe, “e-le-va-to!, e-le-va-to!”? Com’è che non gli prudono le dita quando quello stesso leader, nell’aprile scorso e per giunta nella sua amata Torino, amministra la comunione ai vassalli sotto forma di grilli essiccati? Leggi il seguito di questo post »
Rudimenti di una teoria politica della gaffe
Hai voglia a salire e ridiscendere tutti i gradini dell’esprit de l’escalier, ci sono passi falsi sociali da cui non c’è speranza di riaversi: si resta a terra azzoppati a ruminare e a maledirsi per l’eternità. Il caso più clamoroso di cui abbia notizia è quello di un mio amico capitato, molti anni fa, tra i convitati di una festicciola in casa di una semisconosciuta. Orbitava spaesato intorno al tavolo con le patatine e le bibite, senza trovare un bandolo, un appiglio, un varco per mescolarsi con la comitiva, quando arrivò una telefonata straziante: un amico della festeggiata era morto, appena diciottenne, in un incidente stradale. Lui, che se ne stava al margine della conversazione col suo bicchiere di plastica in mano, forse acquattato dietro una grande pianta, riuscì a captare qualche brandello di frase, e si persuase non ricordo come che la vittima dell’incidente fosse il gatto della padrona di casa. Gli parve l’occasione per uscire dall’ombra. Si accostò alla ragazza in lacrime e le disse, con le migliori intenzioni del consolatore: “Non essere triste, in fondo è vissuto abbastanza. Pensa, il mio gatto è morto a quindici anni”. Ecco, dopo una sortita così gloriosamente infelice non esiste riabilitazione, perlomeno in terra. Anche perché i tentativi affannosi di riscattarsi da una gaffe generano di solito gaffe di secondo e terzo grado, ed è un peccato che non esista un verbo per descrivere questo inabissarsi nell’inferno sociale, neppure una di quelle parole tedesche composte lunghe come trenini. Leggi il seguito di questo post »
La fabbrica dei divi politici
Scacciare in malo modo tutti i demoni, da bravo monaco del deserto, ma lasciare aperto uno spiraglio per quello che Mallarmé chiamava il demone dell’analogia, l’unico da cui si possa ottenere qualche buon favore. Come precetto religioso non vale granché, ma usato con giudizio dà i suoi frutti. Rivedendo giorni fa A Star is Born, la versione del 1937 di un film rifatto più volte nei decenni successivi, c’era una scena che continuava a ricordarmi insistentemente qualcos’altro, ma che cosa? La scena è quella in cui Janet Gaynor, nel ruolo di una ragazza di campagna che tenta la fortuna a Hollywood, è circondata da esperti degli studios in camice bianco che le disegnano sopracciglia di ogni foggia, le allargano la bocca per studiare le potenzialità del suo sorriso, la cospargono di ciprie e di rossetti. Ha l’aria di un piccolo martirio, di un pigmalionismo da laboratorio, ma d’altronde nella Hollywood degli anni d’oro la trasformazione della donna in diva era un processo ascetico e crudele, degno di un racconto di Wedekind, o – come ha suggerito Jeanine Basinger in un bel libro che ne descrive le tappe, The Star Machine – di un mercato delle schiave arabo del decimo secolo. Leggi il seguito di questo post »
La sfinge della responsabilità civile (1987-2015)
In un racconto di Poe, “La Sfinge”, un uomo vede dalla finestra un mostro terrificante, più imponente di una nave da guerra, che discende sul pendio di una collina. Scopre poi che si trattava di una sfinge testa di morto, una farfalla piuttosto inquietante ma pur sempre una farfalla, che si arrampicava su un filo di ragno. Solo per via di un’illusione ottica gli era apparsa così grande da oscurare la collina. Più mi appassionavo al dibattito sulla responsabilità civile dei magistrati, più mi tornava in mente questo racconto. Vezzi letterari, dirà qualcuno: non era più semplice evocare la montagna che partorisce un topolino? E no, qui bisogna aver cura di scegliere bene i simboli, tanto più che la battaglia sulla responsabilità civile, si può dire, non vive che di quelli. È così oggi, e in fondo era così anche nel 1987, l’anno del referendum tradito. Tutto sta a capire che uso si fa delle armi simboliche.
Ho ripreso in mano l’utilissimo Storia di un referendum di Raffaele Genah e Valter Vecellio. Uscito un mese dopo la vittoria del sì, il libro ricostruiva la campagna referendaria e includeva un’antologia del dibattito dell’epoca. Molte pagine danno un brivido di déjà-vu degno di un racconto di Poe. Il fronte del no agitava già allora le stesse sfingi testa di morto gabellate per mostri: il richiamo ricattatorio ai giudici che rischiano la vita, il sospetto di una vendetta orchestrata dai ladri (i politici) contro le guardie, lo spettro del giudice intimidito dall’imputato ricco, le profezie sul collasso dei tribunali, la denuncia lacrimevole di un clima punitivo. I difensori del sì erano più cauti sugli effetti di un’eventuale legge, ma altrettanto persuasi del suo valore di simbolo: era l’occasione per aprire una discussione nazionale sul ruolo del magistrato e sui confini dell’azione giudiziaria. Uno scontro simbolico quanto si vuole, ma con gli stendardi ce le si dava di santa ragione. Andò a finire come sappiamo, ma fu se non altro un grande momento di verità. Leggi il seguito di questo post »
Malattia melodrammatica
Può capitare che la frase giusta sia pronunciata dalla persona sbagliata, nel momento sbagliato e con l’intendimento sbagliato. La risposta che il capo brigatista Mario Moretti diede a Sergio Zavoli, che gli domandava con quale animo avesse affrontato i momenti prima dell’uccisione di Aldo Moro, è probabilmente uno di questi casi: “È difficile in un paese come il nostro, abituato al melodramma, spiegare la tragedia”. Se in Germania il sequestro Schleyer da parte della Raf apparve subito in una luce tragica – tanto che in un film girato a caldo, Germania in autunno, l’archetipo portante era l’Antigone di Sofocle – in Italia anche al caso Moro abbiamo adattato gli schemi più familiari del melodramma: la vittima tenuta ostaggio da barbari aguzzini, che testimonia nella sofferenza la sua virtù, smascherando viltà e macchinazioni dei vecchi compagni di partito. A questa consuetudine antica – Gramsci parlava di “malattia melodrammatica” – la storica Carlotta Sorba ha appena dedicato un libro prezioso, Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento (Laterza). Prezioso, perché mette in ordine e in prospettiva tratti più o meno latenti della vita pubblica italiana, dal culto della vittima all’onnipresenza delle lacrime all’ostentazione virtuosa dell’indignazione. Leggi il seguito di questo post »
I due corpi del presidente, e un solo paio di mutande
All’alba del caso Ruby mi imbattei non ricordo dove in due sagome di cartone da ritagliare, come le paper dolls su cui le bimbe giocano a incollare vestitini anch’essi di carta. La prima raffigurava un Berlusconi in canottiera e mutande; la seconda il suo tipico doppiopetto blu, con tanto di linea tratteggiata per le forbici. Era allora di moda citare (per lo più a sproposito) gli studi di Kantorowicz sulla regalità medievale, e così commentai: “Eccoli, i due corpi del re!”. Un amico arguto aggiunse: “Tutto sta a capire a quale dei due corpi appartengono le mutande”. Il dilemma, in effetti, era tutto lì: le mutande di Berlusconi riguardavano il suo corpo di privato cittadino o erano inseparabili dalla sua figura pubblica, dalla sua dignitas, dal suo corpo politico? Le reazioni al caso Ruby ingarbugliarono le cose: a destra si sostenne che le notti di Arcore erano affari privati, eppure le mutande furono issate fieramente sul pennone come un nuovo stendardo; a sinistra si oscillò tra una campagna scandalistica affidata al braccio secolare della stampa fiancheggiatrice e una delega pavida alla magistratura inquirente, perché frugasse nel cassetto dell’altrui biancheria con strumenti giuridici neutrali. Fu lo scontro tra due mezze ipocrisie: perché era senz’altro politico il processo alle mutande di Berlusconi, e perché erano intimamente politiche anche quelle mutande. Come pretendere che dall’epopea di un leader che aveva dissolto ogni argine tra pubblico e privato fosse stralciato il capitolo sul sesso, e solo quello? Leggi il seguito di questo post »
Fessofurbomachia
Leggo sul nuovo Todomodo, la rivista degli Amici di Leonardo Sciascia, un saggio di Euclide Lo Giudice su un tema che mi pare della massima urgenza storica, ossia il ruolo del cretino e dei suoi fratelli (lo stupido, l’imbecille, il fesso) nella vita nazionale. Nel 1982, per una strenna Giuffrè, Sciascia firmò una breve prefazione al Codice della vita italiana (1917) di Prezzolini, soffermandosi sul primo articolo: “I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi”. Il fesso di Prezzolini paga il biglietto in ferrovia e dichiara al fisco il suo vero reddito; il furbo ha per segni distintivi la pelliccia, l’automobile e le molte donne. Sciascia non poteva che apprezzare l’identificazione tra fessaggine e onestà: il buon fesso in un contesto di furbi, ricorda Lo Giudice, figura spesso nei suoi romanzi, e la frase che suggella il fallimento del professor Laurana in A ciascuno il suo è appunto: “Era un cretino”.
Qualche timida speranza Sciascia la affidava a una constatazione statistica, ossia che i fessi sono più numerosi dei furbi: “Solo che, come gli schiavi di Seneca (‘se gli schiavi si contassero…’), non si contano. E possiamo farcene idea, della schiacciante maggioranza che i fessi verrebbero a formare, solo che avessero consapevolezza del loro numero, dai tanti che quotidianamente e ovunque rimpiangono di non esser furbi”. Se ne deduce che i fessi dovrebbero acquisire la marxiana coscienza di classe, costituire qualcosa come un Fesso collettivo in grado di rovesciare il dominio oligarchico dei furbi. Impresa disperata perché, diceva ancora Prezzolini, il fesso in generale è stupido: se non lo fosse, avrebbe cacciato i furbi da un pezzo. Leggi il seguito di questo post »
Rituali di degradazione, da Cusani a Ruby
Il motto di Oscar Wilde – “Non leggo mai un libro che devo recensire, per non farmi influenzare” – si presta bene anche ad alcuni processi. Per parte mia, ignoro tutto l’ignorabile del processo Ruby e del bis e del ter, non ho letto una riga delle carte, non mi aspetto un bel niente dalle motivazioni e tutto sommato do poco peso alle alterne sentenze, che equivalgono spesso al rigirare la carne sulla griglia a metà cottura (la bistecca essendo l’imputato); ma si tratta di un’ignoranza deliberata, metodologica, programmatica. Tutto quel che mi serviva sapere della vicenda è racchiuso in un delizioso quadretto allegorico che nessuno si è dato ancora la pena di studiare nelle sue mille implicazioni, nei suoi mille sottintesi: la pubblica abiura di Lele Mora, che per compiacere i giudici adottò nelle sue dichiarazioni spontanee gli ipsissima verba degli editoriali di Repubblica – dismisura, abuso di potere, degrado, “tre parole che ho letto sui giornali e che condivido”. E che altro c’era da fare, se non l’infinita esegesi di questa singola scena? Appare chiaro che, in casi come questo, ciò che accade nelle aule di tribunale e si deposita negli atti non è che un piccolo segmento di un rituale più vasto, per il quale dobbiamo ancora trovare un nome, o all’occorrenza ripescarne uno antico. Un libro fantasma può essere d’aiuto. Leggi il seguito di questo post »
Diario astrale
Da quando Kant li dichiarò “scagionati di fronte al tribunale della ragione”, non possiamo più prendercela con i pianeti. Per secoli l’allineamento di tre corpi celesti, fenomeno piuttosto raro, fu letto come un presagio di catastrofi – la peste nera, il terremoto; ma le cause di quelle sciagure, diceva il filosofo, vanno cercate “sotto i nostri piedi”. Il guaio è quando i segni terrestri sono più oscuri dei celesti. L’8 dicembre, primarie del Pd, si annuncia una triplice congiunzione politico-planetaria, mai registrata nelle effemeridi nazionali: i capi dei tre grandi schieramenti che si erano spartiti l’elettorato lo scorso febbraio si troveranno, simultaneamente, fuori dal parlamento. L’uno (Berlusconi) in quanto decaduto, l’altro (Grillo) in quanto azionatore di un giocattolo radiocomandato, l’altro ancora (Renzi) in quanto ammutinato del suo partito. Diverremo, chissà per quanto, una Repubblica a guida extraparlamentare, e ci toccherà ragionare sul grande problema di ciò che è dentro e ciò che resta fuori (e spinge per entrare, per trovare rappresentanza). Confesso di non avere, al riguardo, l’ombra di un’idea; solo due consigli di lettura un po’ visionari. Leggi il seguito di questo post »
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