L’affaire Tortora come prova generale
La malattia melodrammatica, che già Gramsci diagnosticò agli italiani, ha tra i suoi sintomi più vistosi l’abbondante lacrimazione e i brividi da indignazione virtuosa. Due sintomi accomunati dalla labilità, dalla compiaciuta irrilevanza, dalla sterilità politica; e l’effetto più dannoso per la salute nazionale, a lungo termine, è la trasformazione di qualunque caso civile in “caso umano”. Se il francofilo Sciascia preferì parlare di affaire Moro, parola in cui svanisce la connotazione lacrimevole, altrettanto dovremmo fare per il caso Tortora. E, come si fa con Moro, dovremmo leggere gli scritti di Tortora incarcerato e processato – i due libri con Guido Quaranta, gli interventi raccolti da Palazzolo in Per una giustizia giusta, il carteggio e le pagine di diario che Epoca pubblicò in un volumetto intitolato Lettere dal carcere, gli articoli ripescati grazie all’imponente ricerca di Vittorio Pezzuto per Applausi e sputi – come scritti pienamente politici, ripiegando il fazzoletto.
Lo stesso si deve fare con il bellissimo Lettere a Francesca, pubblicato da Pacini Editore con una prefazione di Giuliano Ferrara. Il libro raccoglie alcune delle lettere che Tortora scrisse dal carcere alla compagna Francesca Scopelliti tra il giugno del 1983 e il gennaio del 1984, e il rischio è che molti lo accostino nella chiave del melodramma, facendone un romanzo larmoyant o perfino un romanzo d’avventure – lo stesso Tortora, avido lettore che trovò nei libri l’unico rimedio alla perenne domenica del carcere, si immagina come Don Chisciotte, come Gulliver, come l’esercito russo che sfianca Napoleone, come un Montecristo che escogita in cella il modo più raffinato per vendicare “l’oltraggio infame e meschino” (quale scelta di parole più mélo?) e far sprofondare i suoi accusatori in una voragine di fango.
Ma la raccomandazione generosa che Tortora ripeteva a Francesca – “Non piangere, ti prego” – vale, moltiplicata, per il lettore di oggi. “Sai che ho testa lucida, ‘politica’”, scriveva Tortora da Regina Coeli. E le sue pagine lo dimostrano, dettate dallo sguardo limpido e allibito del gentiluomo liberale che si trova a comparare la sua idea tutta libresca dello Stato alla realtà avvilente della giustizia italiana. Questa presa di coscienza la paragona all’iniziazione della rasatura: “Te l’ho scritto in avamprima: mi sono rapato. E sono atterrito dal vedere come questa esperienza mi abbia trasformato: non ho più un pelo nero. E un’idea sullo Stato, la giustizia, la democrazia che avevo prima”. In poche settimane, capisce tutto quel che c’era da capire. Vive il carcere da osservatore partecipante, intuisce la logica degradante e delirante che ne governa la vita quotidiana. Tocca con mano la nozione un po’ astratta di corporazione giudiziaria, capisce cioè la vastità e la compattezza dell’esercito che ha davanti: “Sono i giudici la malattia nazionale”, scrive, senza mai avallare la versione indulgente, che ancor oggi trova adepti, dei singoli magistrati che sbagliano in buona fede: “Attaccata al mio nome c’è la credibilità di tutto il loro lavoro”. Risale alle radici inquisitorie del disprezzo dell’individuo “nei paesi cattocomunisti e, sostanzialmente, fascisti: questo è un incrocio fra Sant’Uffizio, Hitler, Controriforma e Piedigrotta”. Capisce che l’affaire Tortora è, in ogni senso possibile, politico, e sembra quasi di leggere Moro: “Gioco la mia partita: e non consentirò commettano quello che diventerebbe, credimi, un delitto di Stato. Io sono un sequestrato, oggi, in mano a costoro”.
Ma c’è una frase ricorrente di Tortora che richiede, se possibile, una disamina ancora più attenta: “Se è possibile annientare un innocente così, è possibile tutto”. E quel tutto non era ancora niente, rispetto a quel che dovette vivere fino al 1988, tradimento del referendum compreso. Ecco, l’affaire Tortora si può leggere come un esperimento, una prova generale in cui la corporazione vede fin dove può spingersi. Capisce che può fare tutto. E pochi anni dopo lo farà.
Il Foglio, 15 giugno 2016
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