Gabriele Arcangelo come ufficiale giudiziario (Mani bucate, 5)
Quando l’uomo con il portamonete incontra la vecchina con la bancarella di libri, l’uomo con il portamonete è spacciato. Se poi la vecchina (per modo di dire) è una di quelle maestose e adorabili matrone romane che chiamano tutti gli uomini sotto i sessantacinque anni “bello de nonna” o “cocco de nonna”, e che raccomandano di non far caso ai prezzi scribacchiati a matita perché si può fare un euro a libro e non se ne parla più, la riduzione in miseria è inevitabile. Avevo già ammassato pile di vecchi gialli di John Dickson Carr e di Ellery Queen, quando questa specie di Sora Lella bouquiniste mi ha detto: “Pijatene pure n’artro”. L’occhio mi è caduto su un volumetto intitolato Colpa e vergogna e l’ho infilato distrattamente nella borsa convinto che avesse a che fare con l’antropologa Ruth Benedict, che nel suo classico studio sulla cultura giapponese, Il crisantemo e la spada (1947), aveva distinto appunto civiltà della colpa e civiltà della vergogna. Se la colpa è una macerazione tutta interiore a cospetto della legge morale, la vergogna ne è come il guanto rovesciato, una preoccupazione tutta esteriore per la propria immagine agli occhi del mondo. Guanto rovesciato e, aggiungo, occasionalmente gettato in sfida, perché l’offesa alla reputazione, all’onore, al buon nome può richiedere in casi estremi che del sangue sia versato, altrui o proprio: duello o suicidio rituale.
Solo a casa ho letto per intero il titolo: Colpa e vergogna. La malattia delle tangenti, dello psichiatra Vittorino Andreoli, Editori Riuniti, 1994. I cimeli di Mani pulite hanno spesso tentato le mie mani bucate, ma questo libro uscito a ridosso delle elezioni di marzo, ossia al culmine del Terrore, mi era sfuggito. “Tangentopoli è dipinta soprattutto di vergogna, non di colpa”, scriveva Andreoli. Ci sono due mondi, quello dei già indagati e quello dei non ancora indagati; e il passaggio dall’uno all’altro avviene tramite l’avviso di garanzia, una notificazione dall’effetto trasfigurante. “Il timore di un avviso di garanzia è ancor più potente di quella luce e di quella voce che ha fatto di Paolo un apostolo essendo prima un persecutore”, ma “mentre Paolo cambiò la propria vita definitivamente perché elaborò la colpa, è probabile che i nuovi Paoli divengano santi temporaneamente, elaborando, o meglio giocando, la vergogna”. È una delle tante metafore religiose del libro (l’Inquisizione spagnola, l’autodafé, il Cristo alla colonna, le sacre rappresentazioni di Jacopone), bizzarre ma tutt’altro che incongrue. In La borsa di Miss Flite. Storie e immagini del processo, appena pubblicato da Adelphi, Bruno Cavallone paragona la notificazione a un tocco magico, come quelli delle favole, che consente l’ingresso nell’altro mondo del processo. Paradigma di ogni notificazione è l’Annunciazione, e Gabriele Arcangelo è il primo ufficiale giudiziario, tanto che la pittura trecentesca lo raffigura con uno scettro assai simile a un bâton judiciaire; in un dipinto di Luca di Leida dal bastone pende perfino un cartiglio con l’avviso di gravidanza per Maria.
Ma che cosa accade quando il bâton è maneggiato come la bacchetta di una strega, e l’avviso di garanzia è un incantesimo che incenerisce l’avvisato agli occhi del mondo? Accade che il processo diventa una propaggine superflua di un rito già compiuto nel suo atto d’esordio, che le colpe e le leggi scompaiono, e che tutto si svolge sul piano della vergogna, ossia della gogna. Al farisaico commento di Gerardo d’Ambrosio sul suicidio di Sergio Moroni (“Si vede che c’è ancora qualcuno che per la vergogna si uccide”) fa eco oggi il grido di guerra di Davigo (“Non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi”). In verità ci fu chi, all’epoca, cercò di ragionare di colpe e di responsabilità. Ma tornò utile ricacciarlo sul piano dell’onta e del disonore, e finì accolto dal coro “Vergogna, vergogna”. Perché quando l’uomo con il portamonete incontra Bettino Craxi che esce dall’Hotel Raphael, l’uomo con il portamonete ne esce, in tutti i sensi, come un pover’uomo.
Il Foglio, 2 luglio 2016
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