L’affaire Wiesel-Lanzmann (Mani bucate, 6)
L’antico assioma secondo cui la verità sta nel vino richiede qualche corollario, che specifichi almeno cosa deve intendersi per verità. La chiosa decisiva l’ha aggiunta Erasmo negli Adagia: “Può capitare che si dica il falso, pur rivelando ciò che si ha nel cuore”. Non so se Claude Lanzmann fosse del tutto sobrio il 3 luglio scorso, quando la radio France Inter lo ha intervistato sulla morte di Elie Wiesel, ma di certo non lo sembrava. C’è chi per dissipare l’imbarazzo ha menzionato i suoi novant’anni, chi la sua sordità; attenuanti troppo deboli per abbuonargli un’affermazione falsa e maliziosa: “Elie Wiesel ha passato ad Auschwitz tre o quattro giorni in tutto”, ha detto Lanzmann, citando l’autorità di Imre Kertész, che lo avrebbe rivelato in Essere senza destino. I cronisti hanno setacciato il romanzo del sopravvissuto ungherese senza trovare menzione di Wiesel. Non è lì, infatti, che dovevano cercare. Le stesse parole le sentii pronunciare a Lanzmann nell’inverno del 2008, in un dibattito alla Cinémathèque di Parigi per una retrospettiva sul cinema e la Shoah. “È stato appena qualche giorno ad Auschwitz”, disse con una punta di sarcasmo; ma non si riferiva a Wiesel, si riferiva a Kertész.
Posto che non esiste un numero di cartellini da timbrare per accedere allo status di sopravvissuto, è vero che Kertész fu ad Auschwitz solo di passaggio per poi essere trasferito a Buchenwald. Ma perché Lanzmann ha imbrogliato i ricordi? Credo sia un caso di scuola del corollario erasmiano: può capitare che da ubriachi si dica il falso, pur rivelando ciò che si ha nel cuore. E nel cuore di Lanzmann si è manifestato un sentimento paradossale, lo stesso che George Steiner nel 1965 riconobbe in Sylvia Plath: “una spaventosa invidia, un oscuro risentimento per non esser stati lì, per aver mancato il rendez-vous con l’inferno”. Tentando di sminuire la conoscenza diretta che Wiesel o Kertész ebbero di Auschwitz, Lanzmann tradisce la sua riluttanza ad accettare che i sopravvissuti abbiano più autorità di lui nel parlarne, che siano depositari di un segreto a cui lui non ha accesso. Lo si intuisce quando descrive il fastidio con cui Wiesel, nel 1973, ascoltò il suo progetto del film Shoah, portato a compimento dodici anni dopo. Quella reazione stizzita gli diede l’impressione di aver commesso “un delitto di lesa maestà”, perché Wiesel “pensava che la Shoah fosse di suo dominio, e io non ero sopravvissuto di un campo, ecco tutto”.
Shoah è un film straordinario anche per questo, perché è il tentativo disperato di un non sopravvissuto di colmare la distanza con i sopravvissuti, non alla maniera del falsario bovarista Wilkomirski, che s’inventò un’infanzia da deportato, ma con un’ambizione ben più grande: quella di creare – lo racconta nell’autobiografia Le lièvre de Patagonie – “non un film sulla Shoah, ma un film che fosse la Shoah”. Ma come si può invidiare la meno invidiabile delle sorti? La risposta è proprio nel ruolo pubblico di Wiesel, che più di ogni altro trasformò la figura del sopravvissuto nel sacerdote di una “religione misterica” (la formula è di Peter Novick) dove un segreto oscuro e indicibile si rivela solo a chi ha attraversato l’iniziazione dell’esperienza. Ma già che questa rubrica è un invito allo sperpero, ecco due reperti un po’ rari che fanno al caso nostro: Harry James Cargas in conversation with Elie Wiesel (Paulist Press, 1976), dialogo con un cattolico tutto soffuso da un alone misterico; e Sighet, Sighet (1964), un documentario breve e spettrale dove Wiesel torna in Transilvania nella sua città natale ridotta ormai a una città fantasma. Sembra una splendida prefigurazione di Shoah, vent’anni prima. Speriamo che Lanzmann non lo veda mai.
Il Foglio, 9 luglio 2016
Rispondi