Posts Tagged ‘Bettino Craxi’
Gabriele Arcangelo come ufficiale giudiziario (Mani bucate, 5)
Quando l’uomo con il portamonete incontra la vecchina con la bancarella di libri, l’uomo con il portamonete è spacciato. Se poi la vecchina (per modo di dire) è una di quelle maestose e adorabili matrone romane che chiamano tutti gli uomini sotto i sessantacinque anni “bello de nonna” o “cocco de nonna”, e che raccomandano di non far caso ai prezzi scribacchiati a matita perché si può fare un euro a libro e non se ne parla più, la riduzione in miseria è inevitabile. Avevo già ammassato pile di vecchi gialli di John Dickson Carr e di Ellery Queen, quando questa specie di Sora Lella bouquiniste mi ha detto: “Pijatene pure n’artro”. L’occhio mi è caduto su un volumetto intitolato Colpa e vergogna e l’ho infilato distrattamente nella borsa convinto che avesse a che fare con l’antropologa Ruth Benedict, che nel suo classico studio sulla cultura giapponese, Il crisantemo e la spada (1947), aveva distinto appunto civiltà della colpa e civiltà della vergogna. Se la colpa è una macerazione tutta interiore a cospetto della legge morale, la vergogna ne è come il guanto rovesciato, una preoccupazione tutta esteriore per la propria immagine agli occhi del mondo. Guanto rovesciato e, aggiungo, occasionalmente gettato in sfida, perché l’offesa alla reputazione, all’onore, al buon nome può richiedere in casi estremi che del sangue sia versato, altrui o proprio: duello o suicidio rituale. Leggi il seguito di questo post »
A futura memoria (se la memoria ha un futuro)
“Con Leonardo Sciascia ci lascia un uomo d’altri tempi, speriamo futuri”, aveva scritto Pannella il 21 novembre del 1989, annunciando che avrebbe prestato da quel giorno in poi il piccolo ma instancabile megafono di RadioRadicale alla riproposizione dei discorsi parlamentari e delle interviste di Sciascia, così da dare a quella speranza un’occasione in più di prender forma, presto o tardi. Molte altre volte disse lo stesso di sé – uomo d’altri tempi, speriamo futuri – e sappiamo bene quanto spesso la storia si è presentata ai suoi appuntamenti con dieci, venti o cinquant’anni di ritardo. Lui era lì ad aspettarla nel luogo convenuto, senza fissare l’orologio, fumando mille sigarette. Un profeta, dunque? Al contrario, ai miei occhi Pannella ha una caratteristica che è privilegio dei classici, l’inattuale attualità, l’esser pienamente calati nella storia e tuttavia saper sgusciare alla sua presa, non sottostare al suo ricatto. Da oggi, perciò, più che di ricordare si tratterà di gettare ami nel suo torrente di parole per pescarne quel che ancora hanno da annunciare, da indicare o da scommettere per altri tempi, speriamo futuri. Leggi il seguito di questo post »
Ovvio dei popoli. Momenti di trascurabile banalità
Il mito della rivoluzione è l’oppio degli intellettuali, diceva Raymond Aron, e lo diceva in tempo utile (i carri sovietici non erano ancora entrati a Budapest). Ben vengano dunque le terapie di disintossicazione, anche le più abborracciate e ritardatarie. Prendiamo il caso italiano. Quando, negli anni Ottanta, si esaurirono le riserve d’oppio rivoluzionario, si prospettò il rischio di un’astinenza di massa, con tutti i sintomi connessi (paranoie, allucinazioni, suicidi). Ci si affidò allora all’oppioide sintetico della questione morale e della diversità comunista, assunto così a lungo e in dosi così massicce da generare a sua volta dipendenza. Oggi, finito anche il metadone del dottor Berlinguer, alcuni medici caritatevoli somministrano un surrogato ancora più blando, quello che Berselli chiamava l’ovvio dei popoli.
Nel 2012 Roberto Saviano rimase folgorato da un saggio su Gramsci e Turati e lo prescrisse agli ex oppiomani: “Consiglio questo libro a chi si sente smarrito a sinistra”, annunciò su Repubblica. Che cosa aveva appreso di tanto eccitante? Che era esistita, un tempo, una sinistra riformista e tollerante. Con soli novantun anni di ritardo, arrivava per Saviano la commovente scoperta della scissione di Livorno. Di questa sinistra buona si erano perse le tracce, a quanto pare doveva essere stata una corrente clandestina, finché il suo spirito non è tornato a vivere nel Pd. Chissà cosa accadrà quando, nel 2051, Saviano s’imbatterà nella Storia del Psi di Antonio Landolfi, che da Turati arriva fino a Craxi, o nella Breve storia del liberalismo di sinistra di Paolo Bonetti. Nel frattempo, meglio cercare i propri modelli altrove, dove capita, perfino nella sinistra cilena ai tempi del referendum del 1988. Leggi il seguito di questo post »
Rituali di degradazione, da Cusani a Ruby
Il motto di Oscar Wilde – “Non leggo mai un libro che devo recensire, per non farmi influenzare” – si presta bene anche ad alcuni processi. Per parte mia, ignoro tutto l’ignorabile del processo Ruby e del bis e del ter, non ho letto una riga delle carte, non mi aspetto un bel niente dalle motivazioni e tutto sommato do poco peso alle alterne sentenze, che equivalgono spesso al rigirare la carne sulla griglia a metà cottura (la bistecca essendo l’imputato); ma si tratta di un’ignoranza deliberata, metodologica, programmatica. Tutto quel che mi serviva sapere della vicenda è racchiuso in un delizioso quadretto allegorico che nessuno si è dato ancora la pena di studiare nelle sue mille implicazioni, nei suoi mille sottintesi: la pubblica abiura di Lele Mora, che per compiacere i giudici adottò nelle sue dichiarazioni spontanee gli ipsissima verba degli editoriali di Repubblica – dismisura, abuso di potere, degrado, “tre parole che ho letto sui giornali e che condivido”. E che altro c’era da fare, se non l’infinita esegesi di questa singola scena? Appare chiaro che, in casi come questo, ciò che accade nelle aule di tribunale e si deposita negli atti non è che un piccolo segmento di un rituale più vasto, per il quale dobbiamo ancora trovare un nome, o all’occorrenza ripescarne uno antico. Un libro fantasma può essere d’aiuto. Leggi il seguito di questo post »
L’algoritmo di Michele Serra
Ricordo una folgorante letterina di Mattia Feltri, qui sul Foglio, che cercava di individuare l’algoritmo della famosa regola dei vent’anni, quella per cui la sinistra riconosce, con vent’anni di ritardo appunto, che alcune cose che aveva ritenuto aberranti, losche, impresentabili, frivole, se non addirittura incarnazioni del male assoluto, a guardar bene tanto cattive non erano. Immagino fosse il 2001, perché l’occasione era il film La stanza del figlio di Nanni Moretti, che suscitò un’improvvisa infatuazione di gruppo per il tema della morte. La sequenza di passi descritta da Feltri – che si può applicare indifferentemente a Nietzsche, Monicelli, gli album Panini, Il Signore degli Anelli, Carosello, la castità, le Kessler, la Mitteleuropa – è questa: 1) Una stronzata di destra; 2) Una commovente scoperta; 3) Da sempre patrimonio della sinistra. Formulazione ammirevole, ma incompleta. A questa efficiente procedura di rimozione, falsa coscienza, cancellazione delle tracce e creazione di una continuità fittizia tra posizioni inconciliabili occorre aggiungere un ulteriore passo, logicamente conseguente, ossia: 4) Chiunque d’ora in poi farà l’affermazione di cui al punto 1 (esempio: “Alberto Sordi è una stronzata di destra”), da noi consensualmente ripudiata, sia deriso e trattato da pusillanime. Leggi il seguito di questo post »
Koba il venerabile. Stalin, Bobbio, l’Unità
Sarà che sono entrato in sala a film finito. Sarà che sono un anticomunista maramaldo, con tutto quel che ne viene di viltà e di candida ferocia, e che ho avuto a che fare solo con un’ingombrante carcassa storica che tutto sommato mi sembrava doveroso oltraggiare. Ma ecco, più della lettera arcinota del venticinquenne Bobbio a Mussolini mi ha fatto sobbalzare la lettera inedita del settantacinquenne Bobbio a Paolo Spriano. È datata 8 ottobre 1986, e l’ha pubblicata ieri l’altro l’Unità. L’occasione la forniva un libro, Le passioni di un decennio, che lo storico comunista aveva dedicato agli anni tra il 1946 e il 1956. Di quelle antiche passioni, scrive Bobbio, “è rimasto fermissimo in me il rifiuto di mettere in un solo sacco nazismo e stalinismo. Machiavelli diceva che è lecito al principe violare le regole della morale comune se fa ‘gran cose’. Questa massima a Stalin è applicabile (la costruzione di una società socialista è una ‘gran cosa’), a Hitler no. Hegel diceva che al fondatore di stati, che chiama ‘eroe’ o uomo della storia universale, è lecito usare la violenza che ai suoi seguaci non è più permessa. E per citare ancora Machiavelli, non ho mai trovato ritratto più somigliante a Stalin di quello che egli traccia in poche parole incisive di Annibale: ‘…quella sua inumana crudeltà, la quale insieme con infinite virtù, lo fece sempre, nel cospetto dei suoi soldati, venerando e terribile’. Venerando e terribile. Si può dire di più e di meglio? Il vostro Stalin, e potrei anche dire il nostro, non è stato, e in fondo in fondo è tuttora, ‘venerando e terribile’?”. Leggi il seguito di questo post »
Mani Pulite al Liceo
Quando arrestarono Mario Chiesa avevo appena sedici anni. Del finimondo che mi accadeva attorno capivo ben poco, e registravo solo le informazioni che avessero qualche attinenza con la mia vita di studente di un liceo classico romano, per di più di un liceo storicamente “disimpegnato”. Dunque inezie, dettagli, nugae di poco conto. Non ero ancora hegeliano a sufficienza per riconoscere, nelle fotografie di Borrelli a cavallo che comparivano sui rotocalchi, l’immagine dello Spirito del mondo (Hegel era programma del terzo anno). Eppure, a richiamare oggi i ricordi di quella stagione, devo constatare che il mio fiuto di adolescente mi aveva portato a selezionare l’essenziale, a comporre un vademecum che ancora oggi mi è d’aiuto. Ricordo per esempio di quando vidi il faccione di marmo di Platone, lo stesso che campeggiava sul mio manuale di filosofia, sulla copertina di un volumetto dal titolo Mani pulite. Dentro c’erano l’Apologia di Socrate e il Critone, e il settimanale Epoca lo allegava al numero in edicola: prima, però, aveva avuto l’accortezza di distribuirlo a tutti i parlamentari del parlamento dei corrotti. Non potevo sospettare che in quella copertina ci fossero in nuce tutte le festivaliere filosofe della turpitudine, ma intuii che qualcuno, in Italia, avrebbe presto dovuto bere la cicuta. Leggi il seguito di questo post »
In arrivo piogge di monetine. Consigli per inzupparsi con stile
A hard rain’s a-gonna fall, cantava Bob Dylan, una dura pioggia cadrà. Molti pensarono che annunciasse una pioggia radioattiva (era il 1963), ma lui smentì, disse che era un generico finimondo, e che il verso sulle “pallottole di veleno che intorbidano le acque” si riferiva semmai alle menzogne dei giornali.
Di certo, non c’è pioggia più dura – stando al peso specifico dei goccioloni – né più invocata dalle pallottole velenose della stampa di quella che minaccia di abbattersi sull’Italia: la pioggia delle monetine. Già i cavalli annusano la terra, e certe nuvolacce grigie si addensano sull’orizzonte. Qualche mese fa, una celebrata vedette del giornalismo che ha l’abitudine di intrattenere le scolaresche in giro per l’Italia, si rivolse a una folla di studenti accucciati dicendo che “era un paese sano quello che lanciava le monetine”. Leggi il seguito di questo post »
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