Himmler, Wiesel e la gloria
Molti personaggi storici sono noti per una sola frase, ed è una frase che di solito non hanno detto. Maria Antonietta e le brioches, Lenin e gli utili idioti, Goebbels e la pistola come antidoto alla cultura: la strada del nozionismo è lastricata di apocrifi. Può capitare però che una frase sia stata detta e non detta, o meglio detta in un modo e trascritta in un altro, con variazioni piccole ma decisive. Una delle citazioni più ricorrenti sulla Shoah viene da un discorso segreto agli alti gradi delle SS che Heinrich Himmler tenne a Posen i primi di ottobre del 1943: “Questa è una pagina gloriosa della nostra storia che non è mai stata scritta né mai lo sarà”, si legge nella trascrizione agli atti del processo di Norimberga.
C’è da perderci il sonno. Come può un’impresa essere gloriosa e nascosta allo stesso tempo? La segretezza non si riserva alle azioni vergognose? Fama o infamia? “Portaci pure la morte, ma alla luce!” chiede Aiace a Zeus. E quel divieto agli storiografi futuri, poi, cosa implicava? La cancellazione di tutte le tracce e di tutti i testimoni? Non sorprende che il discorso di Himmler abbia dato filo da torcere agli storici, ispirato gli artisti e – ahimè – anche soffiato sul fuoco di quella retorica pseudo-mistica sull’“indicibile” (qualcuno, commentando Himmler, arrivò a evocare la teologia apofatica di Dionigi Aeropagita). Nel dramma di Rolf Hochhuth del 1963 su Pio XII e gli ebrei, Il vicario, la frase finisce al centro di un dialogo tra il capo della polizia tedesca a Roma e la SS Kurt Gerstein sulla storia e l’oblio; e quarant’anni dopo, quando Costa-Gavras ne trarrà il film Amen, a pronunciarla tra bagliori infernali sarà il Dottore (una sorta di Mengele) con voce enfatica e occhi allucinati.
Ascoltando la registrazione del discorso di Posen, tuttavia, si scopre che Himmler parlò – con toni neppure troppo invasati, per gli standard delle SS – di una pagina gloriosa “da non menzionare mai”. Niemals zu nennendes, non niemals zu schreibendes. Un invito alla disciplina del segreto, considerati i rischi dell’operazione, più che un anatema alle generazioni di storici futuri. Come siano andate le cose tra gli appunti manoscritti di Himmler, le trascrizioni e le traduzioni per far nascere questa discrepanza è materia appunto degli storici, e di certo qualcuno se n’è già occupato. Io posso fare solo qualche congettura sul perché ci siamo tenuti cara la lectio più tronfia e solenne, così carica di un sacro blasfemo.
Nei giorni seguiti alla morte di Elie Wiesel, mentre sfogliavo quel che di lui ho collezionato nel tempo, mi sono ritrovato per le mani un vecchio numero di Judaism, la rivista dell’American Jewish Congress. Uscito nell’estate 1967, ospitava un simposio sull’ebraismo dopo la Shoah tra Elie Wiesel, George Steiner, Emil Fackenheim e Richard Popkin. Nel dibattito seguito alle relazioni, Wiesel domandava: “Perché pensiamo all’Olocausto con vergogna? Perché non lo rivendichiamo come un capitolo glorioso della nostra storia eterna?”. E aggiungeva: “Forse questo dovrebbe essere il compito degli educatori e dei filosofi ebrei: riconsiderare l’evento come una fonte di orgoglio”. Badando al contesto storico della fine degli anni Sessanta in America e in Israele si può spiegare in molti modi quel ribaltamento della vergogna in orgoglio; ma è proprio al contesto storico, a qualunque contesto storico, che Wiesel voleva strappare l’Evento, nonché al linguaggio stesso, perché “non si può parlare dell’inizio e della fine del mondo”. Un capitolo glorioso della nostra storia eterna, ossia di quella storia sacra che non riguarda gli storici. Ancora: “In principio era l’Olocausto”, glorioso e indicibile.
Non c’è nessun nesso diretto, nessuna simmetria, nessuna equivalenza e soprattutto nessuna “zona grigia” tra le parole – pur così simili nella veste esteriore – di Himmler e di Wiesel, che appartengono a due mondi morali incommensurabili. Ma, credo, se abbiamo preferito la variante delle parole di Himmler improntata a una grandeur pacchiana anziché quella che lascia intravedere la meschinità del calcolo politico, è anche perché sembrava consonare meglio con le teologie della Shoah alla Wiesel, da allora così influenti nel discorso pubblico. Non diversamente lo Hier ist kein Warum, “qui non c’è perché”, il rimbrotto spazientito di una SS a un deportato riferito da Primo Levi, è stato adottato come insegna dell’inspiegabilità della Shoah, o addirittura – è il caso di Claude Lanzmann – del divieto assoluto di spiegarla.
Il Foglio, 15 luglio 2016
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