Guido Vitiello

Sotto la toga niente (Mani bucate, 24)

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L’incubo comune di ritrovarsi nudi in mezzo a persone vestite di tutto punto, su cui si sofferma Freud, trova nella vita diurna il corrispettivo più adeguato nella condizione dell’imputato di un processo penale. “In aula, l’imputato è così solo che non si stenta a riconoscerlo”, notava Dante Troisi nel Diario di un giudice. Gli occhi di tutti sono puntati su di lui, ansiosi di indovinargli in volto i segni della colpa o dell’innocenza. Se farfuglia, lo si prende per pentito; se piange, per simulatore; se ha un eloquio troppo forbito, si sospetta che abbia mandato a mente la lezioncina del difensore. Ma la sua solitudine può prendere forme più terribili.

“C’è una norma di altissimo valore estetico nell’art. 474 del nostro codice di procedura penale: ‘l’imputato assiste all’udienza libero nella persona anche se detenuto, salvo che siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza’”. Lo scrive Ennio Amodio, avvocato penalista e professore emerito di procedura penale a Milano, e la scelta di quell’aggettivo stupirà qualcuno. Può, una norma, avere valore estetico? Sì, se si accetta la definizione di “estetica giudiziaria” proposta da Amodio, che non allude a una scienza del bello ma alle forme visibili che illustrano, nella prassi, i valori del giusto processo. È un’accezione simile a quella usata dai liturgisti, perché nel rito religioso, come in quello giudiziario, la bellezza degli arredi, degli abiti, dei gesti e dei paramenti non ha nulla di ornamentale.

Estetica della giustizia penale, pubblicato da Giuffrè, descrive i modi in cui la giurisdizione legittima si intreccia – producendo scempi antiestetici – alla giurisdizione parallela del circo mediatico e alla giurisdizione immaginaria del cinema e della fiction. È lo studio più organico finora dedicato a questi temi, e non si potrà prescinderne. Della miniera di esempi che riporta non esplorerò che un filone. Nella nostra prassi, nota sconsolato Amodio, il principio dell’articolo 474 è ribaltato: di regola, l’imputato in custodia cautelare partecipa al dibattimento rinchiuso in gabbia, anche quando non ce n’è necessità. In altri paesi, le gabbie metalliche sono state sostituite da strutture di vetro, sperimentate per la prima volta in Israele nel processo Eichmann (da noi c’è stato il caso della “gabbia acquario” del processo Bossetti). In Inghilterra e in Canada sopravvive il dock, il recinto di legno collocato davanti al banco del giudice, ma molti lo ritengono lesivo della dignità dell’imputato. Per questo è stato pressoché abolito dalle aule giudiziarie statunitensi: nel 2005 la Corte Suprema Federale ha stabilito che qualsiasi forma di coercizione visibile o marchio di segregazione contrasta con la presunzione d’innocenza. Amodio cita poi un altro caso ritenuto illegittimo dalla Corte Suprema, quello di un imputato che indossava in udienza la tuta da detenuto; e decisioni analoghe le ha prese la Corte europea dei diritti dell’uomo, la cui giurisprudenza insiste sull’uso degradante delle “gabbie in udienza”.

Grandi teli bianchi vennero usati per nascondere alla stampa straniera le gabbie in aula del processo Ruby, presto rimossi per processare una banda di rumeni. Il nostro rito giudiziario è tra i più arretrati, e anche la cultura penalistica, su questo, è latitante. Ho chiesto ad Amodio se non fosse il caso di ripartire da una vecchia idea di Troisi, secondo cui anche l’imputato dovrebbe indossare la toga: “Con la toga, forse, egli, colpevole o innocente, si vedrà simile a chi lo giudica e lo difende. Sennò questo segno serve unicamente a incutere paura e ad alleggerire le tasche”. O a preservare dal contatto con esseri contaminati, come osservava Antoine Garapon rintracciando le radici sacrificali del processo. Mi ha risposto che l’idea confliggerebbe con l’estetica del giusto processo, perché l’imputato non è vincolato agli obblighi degli officianti – per esempio, gli è consentito di mentire. Eppure, non riesco a pensare una via più felice per uscire dall’incubo.

Il Foglio, 30 novembre 2016

Written by Guido

dicembre 4, 2016 a 11:48 am

3 Risposte

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  1. “ 19 novembre 1994 – « Domenica – Un tempo strano, irritante; varia da un’ora all’altra; nuvolo e sereno si alternano anche di notte. Stanotte, come finiva la pioggia e il cielo si sgombrava dalle nuvole, i cani pigliavano a ululare: ricominciava a piovere e smettevano, ma per riprendere di nuovo appena cessava. A momenti pareva che fossero essi stessi, i cani, a cagionare, per capriccio, quei mutamenti, quasi che stanchi della propria voce, avessero bisogno di un pretesto, la pioggia, appunto, per rintanarsi. Apro la finestra: forse le case sono scomparse o sono cresciute smisuratamente o la strada è invasa dai pesci o gli alberi si sono spaccati. Niente: pozzanghere che cani gatti e galline tentano di asciugare. Il macellaio, fermo sul marciapiede di fronte, al rumore delle imposte alza il viso e mi dice: “ Benlevato, giudice “. » (Dante Troisi, Diario di un giudice, 1955) “.

    acabarra59

    dicembre 4, 2016 at 11:43 PM

  2. l’imputato potrebbe assistere in incognito, far sentire la sua voce da lontano, come fosse già morto e parlasse in sogno.

    Fondazione Elia Spallanzani

    dicembre 6, 2016 at 2:42 PM

  3. “Quando tutti gli occhi che cercavano Julien si accorsero della sua presenza, vedendolo occupare il posto leggermente sopraelevato riservato all’imputato, fu accolto da un mormorio di stupore e di commosso interesse.
    Si sarebbe detto, quel giorno, che non aveva vent’anni; era vestito in modo molto semplice, ma con grazia perfetta, la fronte e i capelli erano incantevoli; Mathilde aveva voluto presiedere lei stessa alla sua toilette. Il pallore di Julien era estremo. Non appena si fu seduto sul banco degli imputati sentì dire da tutte le parti: Dio! com’è giovane!… Ma è un bambino… È molto meglio dal vero che nel ritratto.”
    Stendhal, Il Rosso e il Nero

    dallamiatazzadite

    dicembre 7, 2016 at 7:55 PM


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