Caffè scorretto
Nanni Moretti non ha mai girato quel musical sul pasticciere trotzkista nella Roma degli anni Cinquanta, ed è un peccato: poteva essere il suo miglior film. Il mondo invece andrà avanti tranquillamente senza il racconto che sognai di scrivere un’estate di quindici anni fa, e che avrebbe dovuto intitolarsi “Caffè scorretto”. Era la storia di un comunista ravveduto, un omaccione corpulento e sanguigno, che negli anni Novanta apriva una pasticceria a Trastevere. I dolci che preparava erano i più buoni di Roma, ma a ciascuna delle sue specialità aveva dato un nome politicamente scorrettissimo.
La voce si era sparsa tra gli ex compagni di lotte, che facevano la fila per assaggiare le sue leccornie; ma il proprietario, dispettoso, non si accontentava che le indicassero con un cenno della mano. Dovevano chiedergliele ad alta voce, o niente: “Mi dia una testa di negro fondente e un culattone al rhum”. Il conflitto interiore era insostenibile: di qua la testa ben pettinata, colma di pensieri civili e rispettosi, di là gli impulsi barbarici della pancia. Per questa ragione entravano al Caffè scorretto nascondendosi dietro il bavero, come malfattori o spie, e in pubblico negavano di esserci mai stati.
Il racconto – lo si è capito? – era un’allegoria del Foglio, di cui all’epoca ero un semplice lettore. E il gioco del politicamente scorretto funzionava a meraviglia con la clientela della pasticceria giornalistica di Ferrara, dove c’era qualche bourgeois che aveva senso épater. Ma in altri bar più popolari lo stesso menu, servito alla buona, era nel migliore dei casi indigesto, nel peggiore disgustoso.
In Italia il politicamente corretto ricorda le vecchie signore schizzinose dei film con Tomás Milian: nessuno le ha mai viste nel mondo reale, ma stanno lì per rendere più fragoroso e liberatorio il suo rutto. L’America non c’entra nulla. Lì Trump è la reazione odiosa e scomposta a qualcosa che per due decenni ha avuto un peso innegabile sulla politica, sull’accademia e sul linguaggio pubblico. Ma la reazione presuppone un’azione. E nel paese dove un vicepresidente del Senato ha potuto dare dell’orango a una ministra di origini congolesi e restare in carica, il politicamente corretto rischia di essere uno dei tanti fantocci – il liberismo, il presidenzialismo e altre cose mai viste neppure col binocolo – che tanto ci piace abbattere ritualmente. Se va bene un pretesto per fare i dandy, se va male un alibi per imitare il Monnezza.
La Boldrini è uno specchietto per le allodole, caricaturale quanto si vuole, come le signore a tavola in quei film. Quante divisioni ha il politicamente corretto? Ben poche, in Italia. C’e perfino da dubitare che esista – proprio come il mio racconto.
Il Foglio, 10 febbraio 2017
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