Archive for the ‘I miei libri’ Category
Dodici apostati
L’editoria attuale pubblica di tutto, purchè scandalistico e legato alla palpitante attualità, ma secondo Morelli non pubblicherebbe più testi disturbanti. Per Vitiello gli scrittori italiani sarebbero prigionieri fino alla autoparodia dei loro candidi narcisismi. Inclini ad assumere maschere autonobilitanti e deresponsabilizzanti secondo La Porta. Costretti a diventare cabarettisti e improbabili tuttologi nella cultura-spettacolo per avere qualche visibilità, secondo Baresani. Secondo Marchesini, gli stessi amano impegnarsi a sfornare magniloquenti opere-mondo, capolavori annunciati che simulano il tragico. Addirittura, riproporre in chiave miseramente depotenziata la eterna funzione del monstre D’Annunzio delle nostre lettere (Onofri). Diffondere, secondo la diagnosi di Giacopini, una idea midcult di letteratura come balsamo e analgesico, mentre secondo Ranieri, un immaginario plasmato dalla Finanza stringe in una complicità oscena dominanti e dominati, broker, pusher di droga e idee imbastardite. D’altra parte resta essenziale non cedere alla sfiducia nichilista in una possibile razionalità condivisa, alla retorica del pensiero programmaticamente debole, al determinismo di chi dà per scontati processi di socializzazione che svuotino per sempre l’esperienza delle persone. La poesia, linguaggio apparentemente anacronistico, rappresenta nella sua “concretezza” una preziosa resistenza alla menzogna della comunicazione, secondo Perrella. Come per Febbraro, lo scrittore deve e può ritrovare onestamente negli spazi interstiziali, e lontano dallo pseudoestremismo delle avanguardie, una vita intensamente personale. La filosofia rivive quindi non come disciplina accademico-specialistica ma come attività intellettuale e modo di essere, capacità accessibile a chiunque di distinguere il vero dal falso, per D’Agostini. L’intellettuale torna quindi a proporsi come “critico”, scettico ed eretico, inappartenente e misantropo, secondo Berardinelli. La nostra povera lingua, un po’ malandata, provincializzata, ridotta in ambiti sempre più ristretti dall’imperialismo dell’inglese e del plurilinguismo imperante rappresenta ancora l’unica patria e identità riconoscibile per chi abita in una diaspora ormai invasiva, secondo l’esiliato Samonà.
12 apostati. 12 critici dell’ideologia italiana, a cura di Filippo La Porta, Enrico Damiani editore, 128 pagine
Il liberale che non c’è. Manifesto per l’Italia che vorremmo
Vent’anni fa, caduti i muri mentali e fisici, ci dicevamo tutti liberali. Poi, in seguito alla crisi finanziaria mondiale, abbiamo cominciato a imprecare contro il mercato, la finanza e il neoliberismo. Il che è alquanto paradossale in un Paese come il nostro che è sopraffatto da lobby, corporazioni, protezionismi, e che una «rivoluzione liberale» non l’ha mai conosciuta. Tuttavia, sarebbe un errore pensare che il problema sia solo economico o politico: si tratta anche di un deficit storico di cultura liberale, che ci rende diversi dalle altre realtà occidentali. Questo libro si propone di offrire una radiografia minima e documentata di questo nostro ritardo culturale, attraverso una disamina dei settori più importanti della società. Con stile semplice ma rigoroso, gli autori dei singoli capitoli, appartenenti a diverse generazioni, accademici e non, ci accompagnano nella scoperta di quello che siamo, mostrandoci come la soluzione dei problemi può nascere solo da uno sforzo di volontà collettivo.
Introduzione di Corrado Ocone • Ideologia italiana di Dino Cofrancesco • Stato di Giuseppe Bedeschi • Costituzione di Marco Gervasoni • Giustizia di Guido Vitiello • Scuola di Giancristiano Desiderio • Informazione di Giovanni Sallusti • Questione femminile di Laura Zambelli Del Rocino • Bioetica di Luisella Battaglia • Federalismo e tasse di Luigi Marco Bassani • Europa, Europeismo, Euro di Paolo Savona
Il liberale che non c’è. Manifesto per l’Italia che vorremmo, a cura di Corrado Ocone, Castelvecchi, 2015, 126 pagine.
Immagini di piombo. Cinema, storia e terrorismi in Europa
Come sono stati rappresentati il terrorismo, la lotta armata e la violenza politica al cinema? La complicata relazione tra cinema e terrorismi in Italia viene affrontata e discussa da più punti di visti, ma non mancano interventi anche sul contesto basco, tedesco, irlandese, e anche uno sul più recente terrorismo islamico in Olanda. Questo libro si aggiunge quindi alla ristretta schiera di libri su un tema sempre attuale ma poco discusso.
Con contributi di Pierre Sorlin, Roberto Silvestri, Paolo Varvaro, Alan O’Leary, Vito Zagarrio, Gino Nocera, Cinzia Venturoli, Guido Vitiello, Christian Uva, Susanna Pellis, María Pilar Rodríguez e Rob Stone, Maria Carla Zizolfi, Maricla Tagliaferri e Paolo Fantini, e un’intervista a Gianfranco Pannone.
Immagini di piombo. Cinema, storia e terrorismi in Europa, a cura di Luca Peretti e Vanessa Roghi, Postmedia Books, 2014, 160 pagine. Nel volume c’è il mio saggio Ritorno all’autunno tedesco (pp. 85-97)
Breve storia della libertà
Dalla mia Introduzione:
Non dico che Raymond Aron fosse un bell’uomo. Tutt’al più, avrebbe detto mia nonna, un signore distinto: elegante, bel portamento, un sorriso affabile, un naso (cito sempre la nonna) “importante”. Ora date un’occhiata al suo eterno amico-nemico Jean-Paul Sartre: a esser larghi di manica, era la versione strabica di Mr. Moto, il detective giapponese impersonato da Peter Lorre nei noir di fine anni Trenta. Malvestito (degli abiti sbagliava perfino la taglia), alquanto ranocchiesco, esoftalmico dietro gli occhialetti tondi, capelli untissimi, denti giallognoli e ritorti, la pelle vizza, pareva sbalzato da una tavola del repertorio fisiognomico di Lavater. Per giunta era basso, così basso che Aron, che tutto era fuorché uno spilungone, poteva permettersi il capriccio di chiamarlo mon petit camarade. Eppure non c’era verso, le donne preferivano Sartre, che dico: non gli davano pace, lo assediavano come una rockstar o un divo del cinema. E il filosofo, dal canto suo, ricambiava circondandosi di ragazze appariscenti, perché la sola vista di una donna brutta – lo confidò proprio lui, l’inarrivabile sgorbio, in un’intervista a Playboy nel 1965 – lo offendeva. Quanto ad Aron, sfortunatamente, la redazione di Playboy non si sognò mai di interpellarlo sul tema. Almeno sotto questo aspetto, non me la sento di obiettare ai giovani contestatori parigini e al loro slogan “Meglio aver torto con Sartre che ragione con Aron”: ne andava della loro educazione sentimentale, per dirla con il massimo dell’understatement. Non me la sento di obiettare, tanto più che questo schema archetipico si riproduce, con piccole varianti, nella vita di ogni liberale imberbe, negli anni della scuola o dell’università (mi rivolgo, di tutta evidenza, ai lettori maschi; le lettrici portino pazienza per qualche riga, e tutt’al più ci commiserino). Non che fiorissero ovunque menti sopraffine come Sartre e Aron, beninteso. Ma lo schema era quello, inflessibile e crudele: ad affascinare le compagne di studi, ricorderete, erano quasi sempre i propugnatori di idee radicalissime e incendiarie, gli occupatori di aule, i comizianti, i bulli ideologici; il tutto, neppure a dirlo, a spese di noi occhialuti raziocinanti e rimuginanti. La verità? Il liberalismo non è sexy.
Breve storia della libertà, David Schmitz e Jason Brennan, IBL libri, 2013, 274 pagine
Teologia dell’elettricità
Si entra nel gran salone del Musée d’Art Moderne a Parigi dove è ospitato La fée electricité, l’affresco commissionato a Raoul Dufy per l’Esposizione Universale del 1937, ed è come essere ammessi a un cocktail party allegorico gremito di dèi dell’Olimpo, sapienti di ogni epoca, capitani d’industria e uomini di scienza. C’è perfino un’orchestra sinfonica, che offre a Dufy l’occasione per dipingere i suoi consueti violini e violoncelli. La fata che accoglie il visitatore e che dà il titolo all’opera è la mitologica Iris, figlia di Elettra, la messaggera degli dèi che porta a volo le sue ambasciate lasciandosi alle spalle la traccia dell’arcobaleno. E la scena, in effetti, è quella di un duello geloso tra cielo e terra, tra immortali e mortali: la folgore elettrica che irraggia dal pannello centrale è contesa tra Zeus, il dio tonante, e gli impianti della centrale di Vitry-sur-Seine, effigiati in basso; ma è a questi ultimi che spetta la palma, è alla loro industriosità prometeica, o faustiana, che si deve lo scoccare di quel lampo violaceo. Appena a destra, nella compagnia degli ospiti d’onore che comprende Ampère, Ohm, Watt e Volta, si vede appunto l’autore del Faust, Johann Wolfgang Goethe. Tiene tra le mani un foglio con una citazione da una delle sue lettere, dove annuncia che d’ora in poi si volgerà agli artigiani, studierà la chimica e la meccanica, perché l’età del Bello è tramontata e i nostri tempi sono chiamati a far fronte alla necessità e alla miseria. La sapienza scientifica, tecnica e industriale è così celebrata da Dufy a maggior gloria del committente, la Compagnie parisienne de Distribution d’Electricité. Gli uomini hanno rubato il fuoco elettrico agli dèi, hanno imbrigliato la sua potenza e ora la mettono al servizio della civiltà.
Teologia dell’elettricità, Ernst Benz, prefazione di Guido Vitiello, Medusa edizioni, 2013, 128 pagine
Oltre il senso del limite. Giovani e giochi pericolosi
Sembra maturata, negli ultimi anni, l’idea che i giovani abbiano deciso di dedicare il loro tempo libero a inseguire la più recente moda in fatto di giochi pericolosi. A cadenza periodica, assistiamo all’invasione di servizi giornalistici che raccontano – tra condanna morale e curiosità folkloristica – gli orientamenti estremi più in voga tra gli adolescenti di tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Indonesia. Le immagini e i resoconti di pratiche come balconing, choking game, eyeballing o ghost riding si mescolano così entro uno stesso calderone, dove spasso e azzardo si confondono, divertimento e disagio si sovrappongono e i giovani appaiono, contemporaneamente, vittime e carnefici delle più folli tendenze del momento.
Tuttavia il gioco pericoloso non è il semplice frutto di incoscienza o ignoranza del pericolo, né può essere relegato alla sola sfera del malessere o, peggio ancora, del comportamento patologico. Al contrario, rappresenta l’ultima declinazione di un linguaggio del rischio a cui gli adolescenti sembrano attingere per reclamare quelle esigenze personali e collettive che la società non è più in grado di garantire. Bere compulsivamente, sdraiarsi sotto un treno o saltare dal balcone di un hotel sono condotte che rinviano a dimensioni poco considerate dalla ricerca sociale, come il legame tra pericolo e piacere, abiezione e trasgressione, evasione e routine, autocontrollo e desiderio di superamento del sé.
Considerato in questi termini, il rischio giovanile diviene una risorsa per esprimere se stessi, per rafforzare la coesione e l’appartenenza a un gruppo, per affermare il proprio ideale di stile, gusto, consumo e svago collettivo.
Oltre il senso del limite. Giovani e giochi pericolosi, a cura di Valeria Giordano, Manolo Farci, Paola Panarese, Franco Angeli, 2013, 160 pagine. Nel volume c’è il mio saggio La vertigine e l’iniziazione. Congetture spericolate su giochi spericolati (pp. 107-116)
Tempo di fiction. Il racconto televisivo in divenire
Nella varietà delle formule, dei generi e delle estetiche in cui si rende disponibile alla fruizione dei pubblici – dallo sceneggiato degli anni cinquanta alle web-series degli anni duemila – il racconto televisivo continua a intrigare, appassionare, a far vibrare corde emotive. È sempre tempo di fiction. Il segreto di questa continuità è nella capacità metamorfica delle forme narrative, nella plastica mutevolezza con cui linguaggi e immaginari seriali si rimodellano interagendo con le tendenze di cambiamento proprie di ogni fase evolutiva della televisione e del più vasto ambiente mediale. Oggi, nel tempo della convergenza digitale, trasformazioni significative attraversano il campo della fiction tv, aprendo la strada a nuove forme di creatività e nuove modalità di offerta e di consumo. I saggi contenuti nel volume si propongono di cogliere e di restituire analiticamente, riflessivamente, questa doppia articolazione del racconto televisivo: sempre presente e sempre in divenire.
Tempo di fiction. Il racconto televisivo in divenire, a cura di Milly Buonanno, Liguori Editore, 2013, 172 pagine. Nel volume c’è il mio saggio Storie ingarbugliate. Dai mind-game film alle «fiction totali» (pp. 145-156)
In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano
Enzo Tortora suggerì per scherzo di proibire, in Italia, i telefilm di Perry Mason, perché lo spettatore rischiava di farsi un’idea del tutto irreale della giustizia. La battuta coglieva un aspetto decisivo: il processo americano si presta assai meglio del nostro alla messinscena cinematografica, tanto da aver dato vita a generi giudiziari come il courtroom drama e il legal thriller. E in Italia? Che caratteristiche ha il nostro cinema giudiziario? In che modo ha fatto i conti con le evoluzioni del rito processuale, della figura pubblica del magistrato, dei rapporti tra giustizia e società? Com’è cambiata la rappresentazione del mondo della legge e dei suoi protagonisti – giudici, avvocati, imputati? A vent’anni da Mani Pulite, il libro tenta di rispondere a queste domande. I saggi qui raccolti indagano generi e stagioni del nostro cinema (la commedia, il cinema politico, il poliziottesco), autori cruciali come Damiano Damiani, eroi del nostro immaginario come il giudice antimafia, senza trascurare la fiction televisiva, i formati giornalistici di spettacolarizzazione della cronaca nera, le metamorfosi della letteratura giudiziaria.
Con saggi di: Milly Buonanno, Giovanni Damele, Giovambattista Fatelli, Anton Giulio Mancino, Andrea Minuz, Andrea Pergolari, Alessandro Perissinotto, Isabella Pezzini, Christian Ruggiero, Guido Vitiello.
In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano, a cura di Guido Vitiello, Rubbettino, 2013, 178 pagine
La Shoah nel cinema italiano
Nel 2013 l’Italia non ha ancora un museo della Shoah. Nonostante i ripetuti proclami della politica, manca tuttora un’istituzione nazionale che, al pari di quel che avviene nel resto d’Europa, racconti attraverso la lente d’ingrandimento delle vicende italiane la storia dello sterminio degli ebrei d’Europa. La memoria, nel nostro paese, ha seguito altre vie, molte delle quali sono passate per la narrazione cinematografica. I saggi che compongono il secondo numero di «Cinema e Storia» si interrogano sul ruolo svolto dal cinema e dalla televisione, coprendo un arco che va dai primi film e documentari, oggi pressoché sconosciuti, ai successi internazionali come La vita è bella, dalla ricezione dei grandi film americani, come Schindler’s List, ai meno studiati generi “autoctoni” come quello che ha mescolato, fin dagli anni Settanta, erotismo e nazismo. Forme del racconto eterogenee che hanno attraversato la cultura italiana e che, di volta in volta, hanno intrecciato il discorso sulla Shoah ai grandi nodi della rimozione collettiva, dell’antifascismo, dell’identità cattolica, dei persistenti fantasmi dell’eredità mussoliniana.
Con saggi di: Marcello Pezzetti, Andrea Minuz, Emiliano Perra, Giacomo Lichtner, Guido Vitiello, Claudio Gaetani, Claudio Bisoni, Ivana Margarese, Claudia Hassan, Robert Gordon, Damiano Garofalo.
La Shoah nel cinema italiano, a cura di Andrea Minuz e Guido Vitiello, «Cinema e Storia», Rubbettino, 2013, 224 pagine
Una società di stupratori?
Dalla mia prefazione:
Con una limpidezza argomentativa tutta cartesiana e una prosa che preferisce, per così dire, il secco all’umido, Marcela Iacub esamina gli usi ideologici che del caso Strauss-Kahn ha fatto il femminismo radicale francese. Lo scopo: proporre una nuova logica ispiratrice della legislazione sullo stupro, volta a farne un «reato sessista», un’espressione dei rapporti di forza vigenti nella società e non già un attentato, tra le altre cose, all’autodeterminazione e alla libertà sessuale. Se la liberazione sessuale degli anni Settanta aveva celebrato tutte le forme della vita erotica purché fossero consensuali, questo nuovo femminismo cavilla quanto più possibile proprio sulla questione del consenso. Al punto di dire – come nel caso di Strauss-Kahn – che la soggezione suscitata da un uomo potente svuota l’eventuale consenso del suo contenuto di libertà, equiparando di fatto un rapporto sessuale a uno stupro; al punto di credere che una donna che accusa un uomo di stupro non possa, in fin dei conti, mentire quasi mai, e che le sue eventuali menzogne siano anch’esse un prodotto del trauma patito; al punto di ammettere che una donna, riscossa d’improvviso dalla sua soggezione psichica, possa ridefinire retrospettivamente un atto consensuale come stupro, e pretendere che ne seguano le vie legali; al punto, infine, di insinuare che esistano pratiche erotiche e perfino posizioni amatorie «oggettivamente» violente e sessiste, consensuali o meno che siano – quasi una variante dei vecchi manuali dei confessori.
Una società di stupratori?, Marcela Iacub, Medusa edizioni, 2012, 102 pagine
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