Posts Tagged ‘Piergiorgio Bellocchio’
Il pendolino di Foucault
Sono sceso dal pendolino di Foucault, una tratta più breve della Napoli-Portici, e ancora non so bene che cosa ho visto dal finestrino. A colpo d’occhio il paesaggio, in questo Numero zero, era lo stesso del Pendolo – la redazione squinternata di intellettuali déclassés e di ambiziosi delusi, il grande complotto, il mitomane assassinato, le liste vertiginose e petulanti, il riciclaggio forsennato di bustine di Minerva. E allora com’è che non ho l’impressione di aver letto un romanzo? Intendo: quella cosa con i personaggi, gli ambienti, lo stile, una trama di qualche interesse? Un romanzo dove manca tutto questo è come la casa in via dei Matti della canzone per bambini, senza soffitto e senza cucina, dove non c’era il letto né il pavimento, che Sergio Endrigo collocò opportunamente, o profeticamente, proprio al numero zero. In un impeto di suicidio commerciale Bompiani avrebbe potuto capovolgere la celebre formula di turlupinatura del lettore (“un saggio che si legge come un romanzo”) e aggiungere, in una fascetta editoriale: un romanzo che si legge come un saggio. Ma neppure sarebbe stato vero. Non c’è una tesi, una lezione riconoscibile nel libro, se ne possono cavare diverse e confliggenti, ma non per virtù di ambiguità letteraria, per vizio di accozzaglia culinaria. Eco dice che il suo è un Arcimboldo, modo appena velato per dire minestrone, e segnalo a chi vorrà occuparsene una chiave di lettura promettente: in breve, Numero zero è l’atto finale di autocannibalismo di un autore che, fagocitato lo scibile umano, comincia a divorare pezzo per pezzo sé stesso e la sua opera come il contadino affamato di Dario Fo. Siccome lo chef è “a vista” – pare sia la regola, nei ristoranti pretenziosi – la preparazione della zuppa autofaga non è un gran bello spettacolo. Leggi il seguito di questo post »
Soli e civili: l’iniziazione letteraria secondo Matteo Marchesini
L’iniziazione di un giovane di talento ai misteri della confraternita letteraria ha spesso qualcosa di avventuroso. Rodolfo Wilcock, in uno dei testi d’occasione scovati da Edoardo Camurri e raccolti nel Reato di scrivere, l’ha paragonata alla partita di caccia che gli aristocratici di Parigi organizzarono in onore del giovane Bonaparte. Nel parco di Auteuil non c’era nulla da cacciare, così dovettero popolarlo di conigli da allevamento e prelevare dal porcile accanto alla cucina un grosso maiale nero perché facesse la parte del cinghiale. L’ignaro Napoleone fece strage di quei figuranti addomesticati, tra gli sghignazzi rattenuti dei partecipanti. “L’analogia è fin troppo evidente. Napoleone è il giovane intellettuale, forte della sua giovinezza che suscita la solita ammirazione mescolata al disprezzo. Viene invitato a caccia dai suoi colleghi anziani, che hanno già pronta la finta preda”. Dopo che l’iniziando ha ucciso una dozzina di mitissimi conigli (sono le sue prime prove letterarie, al tempo di Wilcock una raccolta di liriche, oggi più probabilmente un volumetto di racconti), gli anziani lo invitano a cacciare il cinghiale, ossia il romanzo. “Nel bosco c’è soltanto un maiale nero terrorizzato dai cani; tutti sanno che si tratta di un povero maiale, eppure aizzano l’inesperto gridando: Al cinghiale! Al cinghiale!”. Il grande passo è fatto, l’ammissione al clan è avvenuta: “Ormai l’iniziato può cacciare da solo: se è abbastanza furbo da capire come stanno le cose, comprerà come gli altri la selvaggina al mercato; se non è furbo, seguiterà a girare per i boschi vuoti”. Leggi il seguito di questo post »
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