Koba il venerabile. Stalin, Bobbio, l’Unità
Sarà che sono entrato in sala a film finito. Sarà che sono un anticomunista maramaldo, con tutto quel che ne viene di viltà e di candida ferocia, e che ho avuto a che fare solo con un’ingombrante carcassa storica che tutto sommato mi sembrava doveroso oltraggiare. Ma ecco, più della lettera arcinota del venticinquenne Bobbio a Mussolini mi ha fatto sobbalzare la lettera inedita del settantacinquenne Bobbio a Paolo Spriano. È datata 8 ottobre 1986, e l’ha pubblicata ieri l’altro l’Unità. L’occasione la forniva un libro, Le passioni di un decennio, che lo storico comunista aveva dedicato agli anni tra il 1946 e il 1956. Di quelle antiche passioni, scrive Bobbio, “è rimasto fermissimo in me il rifiuto di mettere in un solo sacco nazismo e stalinismo. Machiavelli diceva che è lecito al principe violare le regole della morale comune se fa ‘gran cose’. Questa massima a Stalin è applicabile (la costruzione di una società socialista è una ‘gran cosa’), a Hitler no. Hegel diceva che al fondatore di stati, che chiama ‘eroe’ o uomo della storia universale, è lecito usare la violenza che ai suoi seguaci non è più permessa. E per citare ancora Machiavelli, non ho mai trovato ritratto più somigliante a Stalin di quello che egli traccia in poche parole incisive di Annibale: ‘…quella sua inumana crudeltà, la quale insieme con infinite virtù, lo fece sempre, nel cospetto dei suoi soldati, venerando e terribile’. Venerando e terribile. Si può dire di più e di meglio? Il vostro Stalin, e potrei anche dire il nostro, non è stato, e in fondo in fondo è tuttora, ‘venerando e terribile’?”.
Che Bobbio si rifiutasse di affratellare Hitler e Stalin, salvo poi ricredersi negli ultimi anni, era cosa nota anche a un anticomunista tardivo e sciacallesco. Che però potesse farlo ricorrendo a quest’epica dell’eroe superiore alla morale del gregge, e per giunta nel 1986, è roba da far sgranare gli occhi. Ma dice Bobbio nella lettera a Spriano che solo chi ha vissuto quegli anni può capirli, e forse sono arrivato troppo tardi per intuire cosa potesse essere, per un liberalsocialista (ancorché dialogante con il Pci), il “nostro” Stalin, o per conoscere le “infinite virtù” che lo rendevano venerando. Ma perché maramaldeggiare? Tutto è stato già detto sulle molte posizioni di Bobbio rispetto al comunismo e ai comunisti, sulle sue sottili variazioni sul tema dei mezzi e dei fini, sulla questione (invero prepolitica) delle buone intenzioni andate in malora, sull’attrito tra il rigore dello studioso e le passioni, o le convenienze, dell’intellettuale militante. Oltretutto dieci anni dopo, a colloquio con Bosetti, Bobbio avrebbe detto l’esatto contrario di quella lettera: che Stalin e Hitler erano la reincarnazione degli antichi tiranni, e che i marxisti convinti erano fermi alla definizione platonica del tiranno come “uomo eccezionale” a cui tutto è permesso. Era il 1997. L’anno dopo, conversando sempre con Bosetti sul Libro nero del comunismo, Bobbio abbandonava anche l’alibi delle buone intenzioni, e con esso il “fermissimo rifiuto”: Hitler e Stalin erano in uno stesso sacco, come gemelli in utero.
Tutto questo avveniva, incredibile a dirsi, sulle colonne dell’Unità. Oggi che il giornale è impegnato in una generale rimozione degli anni Novanta, la sconcertante ode di Bobbio alla grandezza extramorale di Stalin è presentata come niente fosse, come un documento che “testimonia l’intensità del dialogo con i comunisti italiani” nell’epoca in cui occorreva far fronte contro il nemico mortale: non Hitler, Bettino Craxi. A ripensarci, più delle lettere del giovane Bobbio o del vecchio Bobbio, è questa la cosa lunare.
Articolo uscito sul Foglio il 5 aprile 2013 con il titolo Stalin ti voglio bene.
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