Sulla capitolazione dello Stato davanti alla piazza
È dalla fine di febbraio, da quell’urlo barbarico lanciato a Piazza San Giovanni – “Arrendetevi, siete circondati!” – che non riesco a togliermi dalla testa un’eco; l’eco non già della voce di Grillo, ma del filosofo e giurista Antonio Pigliaru e delle sue Osservazioni sulla cosiddetta capitolazione dello Stato davanti alla piazza. Pigliaru le scrisse nel 1960 a margine dei “fatti di luglio”, i moti di piazza che portarono prima al rinvio del congresso del Msi convocato a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, poi alla caduta del governo Tambroni. “C’è questa tragica esperienza della piazza: che cosa rappresenta di fronte allo Stato? in che senso e in che misura degrada – se lo degrada – lo Stato?”. Vale la pena destreggiarsi tra le impervietà della prosa idealistica e gentiliana di Pigliaru, perché di tutta evidenza la sua favola parla di noi: “‘Capitolare’ equivale, per lo Stato, ad un effettivo alienare la sua volontà ad un’altra volontà, cioè ad un effettivo alienarsi dello Stato a ciò che non è Stato; al limite, a ciò che è l’altro Stato (oppure a ciò che è il non-Stato)”. Ma che cosa accade quando la piazza richiama lo Stato alla sua stessa ragion d’essere, quando redarguisce uno Stato infedele? In questo caso, il cedimento non è una resa, è un segno di forza: “Lo Stato non capitola quando un governo cede alla ragione, anche se questa è espressa in modo troppo pressante, e anche quando questa si manifesta nelle forme discutibili dell’azione diretta o di piazza: non capitola perché, in questo caso, il suo cedere a certe ragioni è effettivamente un reintegrare la logica dello Stato, e dunque un modo di reale restituzione dell’azione dello Stato alla propria verità”.
Oggi però accade qualcosa di diverso, e di nuovo: sbucando dal cavallo di Troia del M5S, la piazza si è insediata nel cuore dello Stato e pretende, al suo interno, di muoversi e operare come piazza. Dalle prime castronerie di Roberta Lombardi (“Noi non incontriamo le parti sociali perché noi siamo le parti sociali”) allo scalmanato e ricattatorio cacerolazo per Rodotà presidente, fino alla sudditanza esibita di alcuni parlamentari, non solo grillini, ai capricci e agli umori di Twitter, pare di cogliere i presentimenti di uno Stato che si sottomette non già alle ragioni della piazza, ma alla sua logica, al suo modus operandi: capitolando. Beninteso, la piazza non esiste, o, per parafrasare Metternich, esiste solo come espressione topografica: è un’astrazione retorica, un’ipostasi arbitraria (come la Rete, la base, la gente, i movimenti, le generazioni, i territori) che cela il più delle volte l’azione di minoranze agguerrite e autolegittimate. Dopo i professionisti dell’antimafia, ci sarebbe un capitolo da scrivere, in Italia, sui professionisti della società civile, quelle facce – sempre le stesse – che dai tempi almeno di Mani pulite si scorgono davanti a tutti i palazzi del potere, megafono alla mano, a presentarsi come parte di un tutto (la società civile, appunto) che non li ha mai delegati a questo ruolo. Ma se questa sineddoche trova legittimità, e se queste astrazioni prendono corpo, lo si deve anzitutto alla sciatta complicità, o alla sciatteria complice, dei mezzi d’informazione. La spaventosa bolla mediatica del “presidente dei cittadini” che si rivela scelto da quattro(mila) gatti in un opaco sondaggino interno ne è la manifestazione più evidente: e a stupire è non tanto che Grillo abbia tentato la truffa, ma che gliel’abbiano lasciata fare impunemente.
La paternale di Napolitano, che resterà tra i vertici shakespeariani della storia della Repubblica, ha definito “avventurosa e deviante” la contrapposizione tra piazza e Parlamento, tra Rete e partiti. Ma il rischio da cui guardarsi non è neppure la contrapposizione, è l’indistinzione; è questo sprofondare della piazza nello Stato e dello Stato nella piazza; è la permeabilità dei confini che abbiamo osservato nei giorni caotici dell’elezione del Presidente da parte di un Parlamento in crisi d’identità e quasi insicuro delle proprie prerogative. Non si tratta, come dice Vendola (sconclusionato anche nelle metafore), di “abbattere (sic) il ponte levatoio per far entrare il cittadino nel castello”. L’alternativa alla capitolazione di cui ragionava Pigliaru non è uno Stato che rincorra la piazza o che diventi esso stesso piazza; è uno Stato che torni a essere pienamente e degnamente Stato. Se ne è capace.
Articolo uscito sul Foglio il 26 aprile 2013 con il titolo I grillini legittimati e la capitolazione dello Stato davanti alla piazza
Written by Guido
aprile 29, 2013 a 5:21 PM
Pubblicato su Il Foglio, Politica
Tagged with Antonio Pigliaru, Beppe Grillo, Giorgio Napolitano, Roberta Lombardi, Stefano Rodotà
4 Risposte
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Professore: il fatto è che lo Stato (da lei invocato nel finale) è anch’esso un’ipostasi.
Mario Valentino
aprile 30, 2013 at 9:37 am
Certo che è un’ipostasi; ma non arbitraria come la Piazza, la Rete o la Gente. E’ un’ipostasi riconosciuta e codificata. Dire “lo Stato chiede di pagare le tasse” ha un significato diverso da “la Piazza chiede Rodotà”!
unpopperuno
aprile 30, 2013 at 11:19 am
Capisco il suo punto; era già comprensibile.
Tuttavia mi riferivo proprio alla sua invocazione finale “uno Stato che torni a essere pienamente e degnamente Stato”, in cui, per evitarne la banalità (in senso tecnico), occorre attribuire ai due “Stato” un significato diverso: penso che il primo sia “lo Stato” come è, il secondo “lo Stato” come dovrebbe essere.
E allora, visto che quella stessa ipostasi ammette, da lei stesso, due declinazioni affatto diverse (diciamo: essere/dover essere?), è risolutivo davvero ancorarsi alla sua (della ipostasi) non-arbitriarietà in quanto “riconosciuta e codificata”? Mi sembra pacifico che qualsiasi codificazione richiede necessariamente, per esser applicata (cioè per il passaggio inverso, da dover essere a essere), un’interpretazione, e dunque la codificazione non costituisce forse, in sé, quel riparo che ne si vorrebbe trovare.
E poi, mi chiedo: nella mente di chi si rifà alla Piazza, non esiste, sia pur larvale, un’immagine (forse anche degenere) di codificazione (se possiamo utilizzare il termine in senso non giuridico), che, nel caso di specie, sarebbe non solo quella dei quattro(mila) gatti, ma quella degli articoli dei giornali, delle televisioni, delle dichiarazioni pubbliche, degli interventi sui siti on-line, nel passaparola di quei due giorni, la cui somma è codificata nel termine Piazza?
Mi permetta di aggiungere che non sono uno specialista; torno sul punto non per il piacere di una polemica fine a se stessa, ma solo per una mia curiosità intellettuale.
Mi sento onorato della possibilità di interloquire con lei, e – capirà – non potrei perdonarmi di non aver anche solo chiesto alla sua cortesia un chiarimento su un dubbio che mi è restato, anche dopo la sua risposta al mio primo commento.
Va da sé (e finisco) che se ritenesse che questo mio dubbio (che è lo stesso dell’altroieri, solo ora meglio argomentato) implichi un chiarimento che vada oltre i limiti dei commenti a un articolo, ne prenderei atto senza difficoltà.
Mario Valentino
Maggio 2, 2013 at 2:40 PM
Le sue osservazioni sono molto pertinenti. Tuttavia aspiravo a dire, nell’articolo, una cosa molto più semplice: che la migliore risposta che lo Stato può dare alla Piazza è fare, nel migliore dei modi e in tempi celeri, le cose a cui è preposto in quanto Stato!
unpopperuno
Maggio 2, 2013 at 2:57 PM