La palma giudiziaria va a nord
La linea della palma che sale verso nord è ormai un luogo comune giornalistico, e i luoghi comuni sono più affollati dei centri commerciali nei giorni di Natale. Che si tratti di denunciare le infiltrazioni della criminalità organizzata in Lombardia o in Veneto, gli affari di cupole e cupolette locali, le connivenze più alte tra Cosa Nostra e istituzioni o, in queste settimane, le trame di Mafia Capitale, è sempre a quella pagina del Giorno della civetta che si torna, e all’immagine dell’Italia che metro dopo metro si va trasformando in una vasta Sicilia. Tutti, all’occasione, evocano Sciascia e la sua palma, da Saviano a Caselli a Camilleri. Professionisti e dilettanti dell’antimafia ne hanno fatto in questi anni una delle metafore portanti del discorso sulla trattativa, e qualche giorno fa sul Fatto quotidiano Antonio Ingroia l’ha usata di nuovo per tendere un cavo da funambolo tra l’inchiesta di cui fu titolare e quella della Procura di Roma. Buon ultimo Francesco Merlo su Repubblica, in un commento grondante pregiudizi e trivialità sul meridione, ha precisato che Mafia Capitale “non è la sciasciana linea della palma che sale verso nord, ma è la geografia che scende. È Roma che, smottando verso sud, è ormai diventata mezzogiorno di suk e di illegalità” (la frase di tutta evidenza non vuol dire nulla, ma rivela se non altro che una personale linea della palma insegue Merlo come la nuvola di Fantozzi: tanti anni a Parigi non gli sono bastati a lasciarsi alle spalle la prosa vuota e ampollosa dell’avvocato siciliano caricaturale).
Abbandoniamo dunque la ressa e lo struscio del luogo comune per tornare a Sciascia e a quella pagina giustamente famosa, dove si dice che la linea della palma, del caffè forte e degli scandali “sale come l’ago di mercurio di un termometro”. A costo di commettere un piccolo arbitrio interpretativo, propongo di non lasciar cadere il riferimento al termometro. Sale la febbre, è vero, ma con essa sale il suo strumento di misurazione. In altre parole, è il caso di riflettere non solo sulla linea della palma criminale, ma anche sulla linea della palma giudiziaria. La contestazione del reato associativo di tipo mafioso nell’inchiesta romana, sulla cui opportunità e pertinenza molto si è discusso, aiuta a illuminare questo punto. Ha scritto Massimo Bordin sul Foglio che il rischio, in casi del genere, è “il prevalere della sociologia e della politica, della descrizione del contesto più che delle singole responsabilità penali”. È lo stesso rischio che l’avvocato Agostino Viviani paventava in un libro profetico e dimenticato, La degenerazione del processo penale in Italia, pubblicato da SugarCo quasi trent’anni fa. Viviani osservava che intorno ai casi di criminalità organizzata si stava compiendo una pericolosa trasformazione del processo penale, tale da ampliare a dismisura l’arbitrio del magistrato e da mettere a rischio il principio costituzionale della responsabilità penale personale. Il processo, scriveva Viviani, deve fondarsi su un sillogismo di questo tipo: “Premessa maggiore: è stato accertato un fatto che, costituendo illecito penale, importa condanna; premessa minore: Tizio ha commesso quel fatto; conclusione: Tizio deve essere condannato”. Ma la logica dell’emergenza, già negli anni Ottanta, tentava di imporre un sillogismo diverso, e insidiosissimo: “Premessa maggiore: è stato accertato un fatto, riferibile a una certa area, fatto che, costituendo illecito penale, importa condanna; premessa minore: Tizio appartiene a quell’area; conclusione: Tizio deve essere condannato”.
Viviani parlava di una “oscura e pesante macchia” che dai processi siciliani e calabresi si stava allargando anche ad altri contesti. Metafora per metafora, è la linea della palma che sale su su per l’Italia.
Articolo uscito sul Foglio il 27 dicembre 2014 con il titolo Palma capitale.
Certo che s’allarga, che dovrebbe fare se non le si è impedito di deragliare dai binari sui quali doveva muoversi secondo il dettato costituzionale.
Questi ora invece di applicare le leggi vogliono diffondere la legalità, di cui non gli importa un fico secco perché a loro, ai magistrati, importano solo i magistrati, con i loro privilegi, i loro orari, le loro vanità.
Se la politica non toglierà a lorsignori il potere di cui abusano, la discrezionalità, buona solo per i fessacchiotti, l’impunità che usano per tenere sotto scacco chi è eletto dal popolo sovrano, se non ci sarà una chiara distinzione tra ruoli con responsabiltà precise e verificate da organi dignitosi, non come quelli attuali,se non si capisce che, caduto il grande bluff berlusconiano, e con una magistratura che non è più monolitica come un tempo fu, è giunto il momento di ristabilire i livelli minimi di civiltà giuridica. Basta solo volerlo, basta solo un po di coraggio. Già, il coraggio.
Henry "Hank" Chinasky
dicembre 31, 2014 at 3:39 PM