Posts Tagged ‘Antonio Ingroia’
Antimafia extraterrestre (Mani bucate, 11)
Sono qui che ripercorro la scala degli “incontri ravvicinati” dell’ufologo J. Allen Hynek per decidere su quale gradino collocare il misterioso fenomeno in cui sono stato coinvolto la mattina del 20 novembre 2015. Quel giorno, poco dopo le undici, mi sono trovato a bordo dello stesso Oggetto Volante Piuttosto Facile Da Identificare – il volo AZ 1797 diretto a Palermo Punta Raisi – in compagnia di due creature extraterrestri di più ardua classificazione, che viaggiavano però separatamente. Il primo era Bruno Vespa, che nello schema delle razze aliene proposto dall’ufologo Brad Steiger credo si possa far ricadere nel tipo Delta, sottospecie insectoids; il secondo era Giorgio Bongiovanni, il veggente di fiducia della Procura di Palermo, direttore della rivista AntimafiaDuemila, con le mani fasciate per via delle stimmate. Il tutto è durato poco più di un’ora, ero stordito e spaventato a morte, scrutavo dal finestrino per controllare se per caso vi fossero strani cerchi nel grano, mi ripetevo come un mantra che la superstizione porta sfortuna e che non dovevo attribuire a quella concomitanza nessun significato particolare; ma col senno di poi mi sento di dire che la categoria più adatta a descrivere ciò che ho vissuto è il cosiddetto CE4, incontro ravvicinato del quarto tipo – un gradino aggiunto alla scala di Hynek dall’intricata casuistica dei suoi prosecutori – ossia il rapimento di un essere umano da parte di un Ufo o dei suoi occupanti. Il termine tecnico è alien abduction. Vi assicuro che non è bello. Leggi il seguito di questo post »
I santini di Giovanni Falcone e l’antimafia devozionale
I soldati che crocifissero Gesù si giocarono a sorte le sue vesti, e la metafora si presta bene a certi tentativi di accaparrarsi l’eredità morale di Giovanni Falcone. Ma è decisamente più adeguata una scena di Amore e guerra, il film di Woody Allen ambientato in Russia al tempo delle campagne napoleoniche: quella in cui la vedova di un soldato caduto sul fronte si spartisce con la sua rivale le reliquie dell’uomo amato da entrambe. “Io vorrei che ci dividessimo le sue lettere”, le dice singhiozzando. E poi: “Lei vuole le vocali o le consonanti?”. Umorismo surreale ma neppure tanto, perché è grosso modo quel che accade con le parole di Falcone, ritagliate e incollate per servire i propositi più vari. Dal “cadavere eccellente” del magistrato ucciso al gioco surrealista del cadavre exquis il passo è breve.
Qualche settimana fa Giorgio Bongiovanni, il veggente e ufologo con le stimmate animatore di Antimafia Duemila – organo ufficioso della Procura di Palermo, a detta di Ingroia – si è scagliato contro Giovanni Fiandaca, colpevole di non voler ospitare nella Facoltà di Giurisprudenza l’incontro organizzato dalla rivista per l’anniversario della strage di Capaci (si è poi svolto venerdì scorso al Conservatorio). Fiandaca era scettico già sul titolo, “Ibridi connubi”, ma Bongiovanni, trionfante, gli ha ricordato che si trattava di ipsissima verba di Falcone, per l’esattezza di parole pronunciate a Courmayeur nell’aprile del 1986. La formula, ibridi connubi, vuol dire tutto e nulla, potrebbe adattarsi indifferentemente agli esperimenti di Mendel sui piselli o all’accoppiamento tra Pasifae e il toro di Creta; e anche letta nel contesto originario si presta a molte interpretazioni. Ma è fin troppo evidente il sottinteso dei promotori: lo spirito di Falcone vive ancora nei pm del processo sulla trattativa, che è la madre di tutti gli ibridi connubi. L’anno scorso il titolo era “Menti raffinatissime”, con sottintesi e allusioni dello stesso tipo. Leggi il seguito di questo post »
Nouvelle Vague Palermitana
Chi vorrà scrivere un giorno la storia della Nouvelle Vague Palermitana, l’avanguardia cinefilo-giudiziaria inaugurata negli anni Novanta dai “giovani turchi” della procura guidata da Caselli, non trascuri l’almanacco del cinema di MicroMega, che potremmo ribattezzare i Cahiers de la Tricoteuse. Certo, i nomi sulla copertina di quest’anno – Ken Loach, Paolo Sorrentino, Roberto Scarpinato, Wim Wenders – fanno pensare al gioco dell’intruso; ma l’intruso non è affatto tale, e anzi il breve scritto del procuratore generale, “Mafia in cerca d’autore”, si presta a esser letto come i classici interventi di Godard e di Rivette sui Cahiers du Cinéma. Lo scrupolo storiografico impone di riconoscere che il padre della Nouvelle Vague giudiziaria è Antonio Ingroia. Nel giugno del 2009 il “magistrato cinefilo” (la definizione è sua) aveva animato a Palermo un convegno sulla rappresentazione della mafia nel cinema e nella fiction, e ne era nato un numero speciale del mensile Duellanti dove lo stesso Ingroia, Scarpinato e l’allora procuratore di Torre Annunziata Raffaele Marino formavano un insolito pool di critica cinematografica. Ma è Scarpinato l’intellettuale del gruppo, ed è ai suoi scritti che dobbiamo rivolgerci per conoscere la poetica dell’avanguardia palermitana.
La palma giudiziaria va a nord
La linea della palma che sale verso nord è ormai un luogo comune giornalistico, e i luoghi comuni sono più affollati dei centri commerciali nei giorni di Natale. Che si tratti di denunciare le infiltrazioni della criminalità organizzata in Lombardia o in Veneto, gli affari di cupole e cupolette locali, le connivenze più alte tra Cosa Nostra e istituzioni o, in queste settimane, le trame di Mafia Capitale, è sempre a quella pagina del Giorno della civetta che si torna, e all’immagine dell’Italia che metro dopo metro si va trasformando in una vasta Sicilia. Tutti, all’occasione, evocano Sciascia e la sua palma, da Saviano a Caselli a Camilleri. Professionisti e dilettanti dell’antimafia ne hanno fatto in questi anni una delle metafore portanti del discorso sulla trattativa, e qualche giorno fa sul Fatto quotidiano Antonio Ingroia l’ha usata di nuovo per tendere un cavo da funambolo tra l’inchiesta di cui fu titolare e quella della Procura di Roma. Buon ultimo Francesco Merlo su Repubblica, in un commento grondante pregiudizi e trivialità sul meridione, ha precisato che Mafia Capitale “non è la sciasciana linea della palma che sale verso nord, ma è la geografia che scende. È Roma che, smottando verso sud, è ormai diventata mezzogiorno di suk e di illegalità” (la frase di tutta evidenza non vuol dire nulla, ma rivela se non altro che una personale linea della palma insegue Merlo come la nuvola di Fantozzi: tanti anni a Parigi non gli sono bastati a lasciarsi alle spalle la prosa vuota e ampollosa dell’avvocato siciliano caricaturale). Leggi il seguito di questo post »
Lost in Riina. Il labirinto della trattativa
Gli americani hanno Lost, noi abbiamo la trattativa Stato-mafia, e magari fosse solo una boutade. È tempo di congedare con onore la vecchia formula di Soulez Larivière, “circo mediatico-giudiziario”, che alludeva a uno spettacolo pacchiano fatto di leoni, domatori, trapezisti e pagliacci; tutto questo è ormai alle spalle, e il processo si avvia a diventare una strana e raffinata forma di transmedia storytelling o narrazione transmediale (Lost ne è l’esempio più celebre); ossia, una storia raccontata attraverso diversi media – film, serie tv, romanzi, fumetti, videogiochi – che cooperano per dar forma a un universo narrativo labirintico, disseminato, capace di espandersi all’infinito e in ogni direzione grazie anche al contributo attivo dei fan. Nel caso della trattativa Stato-mafia manca il videogioco (arriverà, prima o poi: “I predatori dell’Agenda perduta”), ma la logica è pressappoco la stessa. Leggi il seguito di questo post »
“L’antimafia non può processare sé stessa” (Leonardo Sciascia)
C’è una frase che ricorre come un mantra nella pubblicistica sulla trattativa, attribuita a Leonardo Sciascia: “Lo Stato non può processare sé stesso”. Finalmente, dicono i fiancheggiatori dell’accusa, ecco un drappello di magistrati coraggiosi che tenta di smentire l’assioma; donde la portata storica, epocale del processo palermitano. Davvero Sciascia pronunciò quella frase? Difficile a dirsi, perché i tanti che la citano tra virgolette, un clan endogamico che avrebbe fatto la gioia di Lévi-Strauss – Marco Travaglio, Saverio Lodato, Maurizio Torrealta, Salvatore Borsellino, Sandra Rizza, Beppe Grillo – se la passano di bocca in bocca senza mai menzionarne la fonte. Ho fatto un modesto esercizio di filologia in pantofole, e la più antica occorrenza di cui abbia trovato notizia è un intervento di Antonio Ingroia su un MicroMega del 2001. Negli scritti di Sciascia, almeno in quelli in cui era ragionevole attendersela, la frase non c’è (la si trova invece nella commedia Oplà, maresciallo di Giovanni Arpino, che fu il mentore del giovane Travaglio presso Montanelli: frugate, segugi!). Tendo a pensare che sia una parafrasi, non per forza infedele, di qualcosa che Sciascia potrebbe aver detto ai tempi dell’affaire Moro, forse alludendo al sogno pasoliniano di un “processo al Palazzo”. Ma c’è il caso che mi sbagli. Poco male: il punto non è la frase in sé, che fuori contesto vuol dir poco o niente, è l’uso che ne fanno gli apologisti del processo trattativa, e il significato che le attribuiscono. Questione che si lega a filo doppio a un’altra, ossia che cosa intendano tutti costoro per Stato. Leggi il seguito di questo post »
Triglia della Vucciria. Sul linguaggio di Ingroia
Ogni volta che Ingroia apre bocca, ripenso ai versi di Montale: “Le tue parole iridavano come le scaglie / della triglia moribonda”. Sissignori, un bel triglione che dibatte la coda sui banchi della Vucciria, e che sguscia via di mano a chiunque tenti di acciuffarlo. Sarà per questa qualità iridescente del suo discorso, per questo mobile e indefinito scintillìo, che mi riesce così difficile riscuotermi dall’incantesimo e staccargli gli occhi (e le orecchie) di dosso. Ancora più difficile è raccapezzarsi in quel che dice, e soprattutto in quel che non dice. L’ars retorica di Ingroia, infatti, è tutta compresa tra le figure della preterizione e della reticenza, o se si vuole tra il Figaro mozartiano (“Il resto nol dico, già ognuno lo sa”) e il Peppino De Filippo della Malafemmena (“E ho detto tutto”). La mascariatura della Boccassini, condotta con la complicità riluttante di un morto (“Mi basta sapere cosa pensava di me Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo”), ne è un caso di scuola. Non è una caduta di stile: è l’essenza stessa del suo stile. Leggi il seguito di questo post »
La giustizia con le figurine
La scheda di Pietro Grasso sul sito ufficiale della Nazionale Italiana Magistrati lo descrive come “un centrocampista tatticamente molto attento”, e conoscendo il personaggio non si fatica a crederlo. Gian Carlo Caselli, il suo storico rivale nella corsa per la Superprocura, figura invece – avevate dubbi? – nel ruolo di centravanti di sfondamento. Il fantasista Antonio Ingroia non risulta tra i convocati, e non ce la sentiamo di biasimare il ct: tra dribbling inconcludenti (“non sto facendo un passo indietro, ma un passo di lato”) e imprecazioni lanciate all’arbitro, il pm della trattativa finirebbe per cincischiare davanti alla porta (“devo ancora decidere se tirare o non tirare”) o per farsi parare un rigore da Totò Riina. Non che ci sia una corrispondenza stretta tra tattiche processuali e tattiche di gioco, o tra correnti dell’Anm e schieramenti in campo nella Nim, ma la metafora calcistica torna utile via via che la campagna elettorale della stagione 2012-2013 comincia a prendere l’inedito aspetto di un “derby del cuore” tra magistrati. Ogni forza politica, a turno, pesca il suo straniero in toga, come nelle partitelle tra ragazzini. Tu hai Ingroia? E io mi prendo Stefano Dambruoso. Ah sì? E allora io scelgo Grasso. Alla fine tutti hanno il loro magistrato da tenere in panchina per il ministero della Giustizia, e vince chi mette in campo il più forte. Il Pd, con Grasso, ha fatto il colpaccio. Leggi il seguito di questo post »
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