Guido Vitiello

Su una Nave di Teseo battente bandiera liberiana

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Un bel giorno, senza dire niente a nessuno, il professor Eco optò per il mare, e si imbarcò su una Nave di Teseo battente bandiera liberiana. Cosa trasportasse quella nave non lo sapeva ancora, e neppure conosceva la rotta; ma per fortuna chi la sera tira tardi leggendo Kant ha sempre con sé almeno due bussole, il cielo stellato e la legge morale. “Mio nipotino mi ha chiesto: ‘Nonno, perché lo fai?’. Gli ho risposto: ‘Perché si deve’”. È l’avvio di tante storie partigiane, la fresca sventatezza che è privilegio della gioventù, il singhiozzo smorzato in gola di chi parte bisaccia in spalla perché qui si fa l’Italia, l’azzardo generoso dell’esordiente che ha tutto da perdere eppure è disposto a giocarsi il suo piccolo gruzzolo. “Velleitari?”, chiede il cronista Francesco Merlo, il primo embedded della nave. “Peggio, siamo pazzi”. Perché non chiamarla allora Narrenschiff, la nave dei folli di Sebastian Brant e delle feste medievali, immagine così cara all’Eco del Pendolo di Foucault e degli studi sull’ermetismo? La Nave dei Folli, questo sì che sarebbe un bel nome per un editore, un nome bibliofilo e squinternato a un tempo (su, che fate in tempo a cambiarlo).

Proprio al partigiano Umberto, d’altronde, i transfughi del nuovo colosso editoriale avevano affidato la fornitura delle munizioni metaforiche, e un po’ pazzi bisogna esserlo davvero per decidere di farsi battezzare da uno che ha chiamato il protagonista del suo ultimo romanzo Braggadocio. L’alternativa alla Nave di Teseo, apprendiamo dal diario di bordo di Merlo, poteva essere un ammiccante Zio Vale, per via di Valentino Bompiani, che salvò il giovane Eco proprio dai nomi infelici suggerendo di sostituire il progettato Psicologia e pedagogia della cultura di massa con Apocalittici e integrati (e allora perché non Frate Vittorio, in onore alla famiglia della timoniera?); oppure Cyrano, che per il suo “mi batto, mi batto, mi batto” Eco aveva paragonato anni fa a un altro spadaccino armato solo di poesia e inviso ai potenti, l’editore Carlo Caracciolo; e poi, ancora, Caratteri Mobili, Renzo e Lucia, Garamond, lo stesso nome della casa editrice dei paranoici del Pendolo, o infine Vasa, come il galeone di Stoccolma o come Totò “vasa vasa” Cuffaro.

E questi sono equivoci che vanno disinnescati subito, perché a guidare gli sforzi dei carpentieri non c’è solo lo spirito imprenditoriale (sempre benemerito), e neppure il sano orgoglio di un’idea diversa dell’editoria e della cultura. Anzi, tutto sommato questa retorica un po’ ribalda da United Artists può anche far simpatia. “I matti si stanno impossessando del manicomio”, pare che avesse commentato Richard A. Rowland, capo della Metro Pictures (la futura Metro-Goldwyn-Meyer), quando nel 1919 fu fondata la casa di produzione con cui registi e attori volevano riguadagnare la sovranità sulle proprie opere. Semmai ci si chiede se la retorica può funzionare altrettanto bene quando, invece di Chaplin e di Griffith, si hanno in squadra Susanna Tamaro, Lidia Ravera e forse un giorno Paulo Coelho. No, il discrimine non è solo imprenditoriale o culturale, è – nientemeno – antropologico. “Si sono incontrate per non capirsi Elisabetta Sgarbi e Marina Berlusconi”, racconta Eco, e Merlo diligentemente chiosa: “Non donne incompatibili e incomunicabili (sic) per ideologia, ma per antropologia”. L’una solca i mari sul “fragile e felice legno degli scrittori” (doppio sic), l’altra è a capo di un barcone marcio e invaso dai topi; l’una s’intrattiene con Umberto Eco, l’altra con Alfonso Signorini.

“Qualsiasi cosa avesse detto, Marina non avrebbe capito”. Le donne “incomunicabili”, immagine che nemmeno Antonioni degli anni d’oro, sembrano produrre la stessa merce (il libro), ma non è così. Basta avere studiato un po’ di antropologia per capire come ragionano i primitivi. Nel Cogito interruptus Eco ricordava che l’orologio meccanico, figlio di secoli di scienza e di tecnica, per il capo cannibale è “un monile cinetico da mettere al collo”. Il Libro al collo, o l’Anello al naso, ecco un buon nome per una casa editrice rivale. La Nave di Teseo è così così, ma bisogna prendere il buono di ogni metafora, e implorare i naviganti: se volete far correre il fragile e felice legno, buttate a mare l’infelice cronista embedded prima che sia troppo tardi, e fate rotta il più lontano possibile da Largo Fochetti. Optate piuttosto per la Liberia. Seguite il cargo di Manuel Fantoni.

Articolo uscito sul Foglio il 26 novembre 2015 con il titolo Antropologicamente differente, la Nave di Teseo issi la bandiera liberiana

Written by Guido

novembre 30, 2015 a 6:11 PM

Una Risposta

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  1. Bah, arriva buon ultimo; i perculi e i consigli sul nome non si contano e nessun liberista a dire che se ti prendi il rischio d’impresa di fare una cosa te la fai esattamente come cazzo vuoi tu; per inciso è un nome fitting (come direbbero i youngamericanwannabe) e con una componente di autoperculo non indifferente. Ovviamente è una componente che non si coglie considerandoli semplicemente snob.

    david

    dicembre 4, 2015 at 12:40 PM


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