Guido Vitiello

La mano maneggia (Mani bucate, 10)

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Alcuni luoghi comuni richiedono una rettifica, un corollario, un lieve aggiustamento di tiro; altri esigono il tributo di sangue di una vendetta. Non giudicare un libro dalla copertina. Che scemenza è mai questa? La fonte, tra l’altro, pare sia il signor Tulliver del Mulino sulla Floss di George Eliot, e io ci penserei bene prima di affidarmi all’autorità di un mugnaio del primo Ottocento che compra i libri in blocco solo perché hanno la stessa legatura (“ho pensato che dovevano essere tutti buoni libri”). Non solo si può giudicare un libro dalla copertina, lo si può anche comprare unicamente per quella, e starsene ad ammirarla come fosse un emblema rinascimentale, considerando il titolo alla stregua del motto latino che accompagna l’immagine allegorica.

C’è un libro che non mi sogno neppure di leggere, ma che non mi stancherò mai di ammirare: Jacques Derrida, La mano di Heidegger, a cura di Maurizio Ferraris. Lo ha pubblicato Laterza nel 1991 nella collana Quadrante, riconoscibile per quel reticolo alla Mondrian di linee rosse su fondo bianco. Qui però l’impalcatura astratta è usata come il telaio di una finestra, e sulla balaustra tipografica è affacciato il signor Heidegger con un morbido maglione a V e un sorriso passabilmente affabile per un nazista. Ricorda uno di quei pensionati che capita ancor oggi di vedere in certi quartieri romani, perennemente appollaiati sul davanzale, fieri del loro posto in galleria sul gran teatro della vita, da cui esercitano un’attitudine moralistica, sardonica e a suo modo filosofica. Ma nell’emblema di Laterza c’è qualcosa di più. Dal suo parapetto rosso il filosofo lascia pendere – maliziosa, floscia, enigmaticamente invitante – una mano. Decenni di quella che il mugnaio Tulliver, con eufemismo caro ai vittoriani, avrebbe forse chiamato self-pollution heideggeriana, dagli scimmiottatori francesi ai loro meta-scimmiottatori italiani, sono ricapitolati in quell’immagine, che andrebbe esposta come monito nell’atrio dei dipartimenti di filosofia accanto al motto dell’epigrammista Gino Patroni: “È prescritto l’abito da sega”. Dopo tutto, se il nulla nulleggia, la mano maneggia.

Qualunque cosa avesse da dire Heidegger sulla questione della mano, e qualunque vaniloquio Derrida abbia poi saputo ricamarci intorno, mi interessa poco, perché per uno come me che considera la filosofia un ramo della letteratura fantastica (la frase è di Borges) nessuno potrà mai eguagliare la pagina di Oswald Spengler del 1931 sulla “nascita della mano”. Proprio così, la nascita, perché la mano “deve essere sorta all’improvviso, in confronto col ritmo delle correnti cosmiche, rapida come un lampo, come un terremoto, come tutto ciò che è decisivo nelle vicende del mondo”. Non è magnifico? È la Kulturkritik teutonica che incontra gli effetti speciali più disgustosi dell’horror anni Ottanta; e la faccia del nostro antenato preistorico che quando meno se l’aspetta vede spuntarsi una mano non riesco a immaginarla diversa da quella del protagonista di Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis, che come primo sintomo della sua trasformazione in licantropo assiste appunto a un mostruoso estendersi e deformarsi delle dita.

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Questa mescolanza apparentemente incongrua di filosofia, onanismo e cinema horror la si ritrova in un piccolo libro appena pubblicato da Penguin, Hands: what we do with them – and why dello psicoanalista freudiano Darian Leader, che mi sono precipitato a comprare per la ben nota patologia della mano che dà il titolo a questa rubrica. Il film di Landis è solo uno dei molti citati da Leader, che dalle cineteche trae ogni genere di imbeccata psicologica e filosofica. Perché gli zombie di Romero camminano con le mani protese? Perché in tanti film dell’orrore, dall’espressionista Orlacs Hände di Robert Wiene a Evil Dead, sono proprio le mani a sfuggire al controllo della volontà e a cadere preda di forze malvagie? Perché è così ricorrente la scena in cui una persona trattiene a fatica per la mano un’altra che rischia di precipitare nell’abisso? Ma non sono, questi, gli unici servizi che il cinema può offrire alla conoscenza della mente. Leader racconta infatti che un ricercatore in neurologia, per descrivere lo strano fenomeno per cui una mano entra in conflitto con l’altra e ne reprime gli impulsi incontrollati, propose la formula “Sindrome del Dottor Stranamore”, citando il Peter Sellers di Kubrick che con la sinistra impediva alla destra di fare il saluto nazista. Gli ottusi peer reviewers, ahimè, respinsero la proposta. Io dico che si potrebbe battezzarla “La mano di Heidegger”.

Il Foglio, 6 agosto 2016

Written by Guido

agosto 11, 2016 a 4:51 PM

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