Posts Tagged ‘Martin Heidegger’
Filosofia e pelle d’oca (Mani bucate, 26)
Tra i fatti inquietanti che attraversano senza dare nell’occhio le pagine scientifiche dei giornali, spesso rincantucciandosi nei trafiletti, ce n’è uno che eccita da anni il mio talento frustrato per la patafisica sperimentale. Nel 2014 un team di ricercatori sudcoreani annunciò la creazione di un goosebump detector, un sensore di due centimetri per due, simile a un cerotto, in grado di misurare il misterioso fenomeno della pelle d’oca. Non so a che punto siano, ma quando avranno completato l’opera confido nelle mani bucate di un mecenate o di un ereditiere, che sarà ben felice di dilapidare parte delle sue fortune dopo che lo avrò convinto a dar seguito a una vecchia intuizione di Giuseppe Pontiggia: “Non è stata ancora tentata una fisiologia della lettura, eppure sarebbe più rivelatrice e illuminante – nel suo arbitrio evidente – di tante argomentazioni critiche che lasciano, per usare una espressione precisa, il tempo che trovano”. Nell’attesa, leggo quanto posso sullo studio degli aesthetic chills, o brividi estetici, che è in corso da decenni. Finora ci si è dedicati soprattutto alla musica. A suscitare quel particolare frisson, quell’elettricità a fior di pelle, sono le armonie inattese, il repentino cambio di volume, l’ingresso di un solista, il suo inerpicarsi verso il picco di una nota alta – tutto ciò che spiazza l’ascoltatore e lo fa ritrovare in un altro luogo prima ancora che possa chiedersi come ci è finito. Un esperimento condotto da psicologi includeva, per esempio, la misurazione della risposta galvanica della pelle all’ingresso del coro nella Johannes Passion di Bach. Leggi il seguito di questo post »
La mano maneggia (Mani bucate, 10)
Alcuni luoghi comuni richiedono una rettifica, un corollario, un lieve aggiustamento di tiro; altri esigono il tributo di sangue di una vendetta. Non giudicare un libro dalla copertina. Che scemenza è mai questa? La fonte, tra l’altro, pare sia il signor Tulliver del Mulino sulla Floss di George Eliot, e io ci penserei bene prima di affidarmi all’autorità di un mugnaio del primo Ottocento che compra i libri in blocco solo perché hanno la stessa legatura (“ho pensato che dovevano essere tutti buoni libri”). Non solo si può giudicare un libro dalla copertina, lo si può anche comprare unicamente per quella, e starsene ad ammirarla come fosse un emblema rinascimentale, considerando il titolo alla stregua del motto latino che accompagna l’immagine allegorica. Leggi il seguito di questo post »
What if Nietzsche…? Esercizi di fantastoria culturale
Sarà pur vero che la storia non si fa con i se, ma con i se la si può disfare a piacimento, e riportare al condizionale tutti i suoi indicativi è un esercizio che ha qualcosa di ubriacante. Gli storici, specie americani, tentano esperimenti di “storia controfattuale” (che ne sarebbe del mondo se Napoleone avesse trionfato a Waterloo, se Alessandro Magno non fosse morto così giovane, se i persiani avessero sconfitto i greci a Maratona?). Gli scrittori di fantascienza immaginano le loro ucronie, o s’inventano macchine del tempo che danno l’occasione, per dirne una, di tornare a Braunau am Inn nel 1889 e uccidere nella culla Adolf bebé così da risparmiarsi una guerra mondiale, un genocidio e l’Oscar a Benigni.
Comincio a pensare che lo stesso espediente si dovrebbe applicare sistematicamente alla storia della cultura, non solo alla storia politica e militare. Me ne ha convinto Bernard-Henri Lévy, ignaro fondatore di un genere giornalistico che propongo di battezzare “coccodrillo controfattuale”. Quando morì Claude Lévi-Strauss, nel 2009, BHL scrisse che la domanda corretta da farsi, al momento di congedarsi da un grande, è questa: che cosa non avremmo senza di lui? Un esercizio di fantastoria, appunto. Faceva seguire un lungo elenco: senza Lévi-Strauss non avremmo lo strutturalismo, le filosofie del Sessantotto, i postmoderni francesi e italiani, Foucault, Deleuze, Agamben, Baudrillard, e non avremmo neppure i suoi libri, i libri di BHL. Crudeli prodigi della fantascienza: a fine lettura, quasi senza accorgermene, ero passato dall’esser triste per la morte di Lévi-Strauss al desiderare che non fosse mai nato. Leggi il seguito di questo post »
Come se fosse antani. Genealogia della superbia intellettuale
Del pensiero francese non si butta via nulla, neppure le bucce, ha commentato un mio sarcastico amico davanti all’ultimo opuscolo di Georges Didi-Huberman: Scorze. La francofilia degli editori italiani è cosa nota, eppure ci sono autori che faticano a varcare le Alpi, costringendo un povero incensurato come me a fare lo spallone. Proverò quindi a contrabbandare François George, saggista dai molti pseudonimi che nel 1979 pubblicò un pamphlet intraducibile fin dal titolo, L’Effet ’Yau de Poêle. De Lacan et des lacaniens. Incuriosito dalla nuova moda parigina, George si era intrufolato in un circolo che si riuniva il venerdì sera nella sala interna di un caffè del Quartiere latino per dedicarsi all’esegesi collettiva di Lacan. Non capiva un accidente e si sentiva un cretino, ma tra di loro i lacaniani sembravano intendersi a meraviglia, era tutto uno scambiarsi pensosi cenni di assenso. Il bluff rischiava di saltare quando il barbuto direttore del seminario gli chiese di commentare un passo piuttosto difficile; nel panico, George improvvisò qualche frase a vanvera (qui diremmo una supercazzola) ed era pronto a farsi sbattere fuori nella riprovazione generale. “Ma a poco a poco, mi accorsi che le mie parole, lungi dal suscitare scandalo, cadevano in un silenzio interessato, e constatai una cosa meravigliosa: senza capirmi io stesso, parlavo in lacaniano”. Il direttore gli prospettò perfino un fulgido avvenire nel circolo. Da cretino, George passò a sentirsi un impostore. Seguivano duecento pagine sul lacanismo come scuola esoterico-pitagorica, e su quel gergo ripugnante che valeva, a un tempo, da strumento di dominio intellettuale, da repertorio di parole d’ordine per i membri della confraternita e da arma di seduzione, o di intimidazione, presso la gente colta. Tutte cose che hanno a che fare con il potere più che con la conoscenza. Leggi il seguito di questo post »
Metafisica del processo e oblio dell’imputato
Far pace con l’idea che siamo cugini degli scimpanzé è difficile, ma mai quanto ammettere di aver vissuto in un paese i cui destini sono stati appesi per anni a un magistrato che, alla domanda su cosa sia l’errore giudiziario, risponde così: “Io accuso lei di omicidio e il ‘morto’ è vivo. Questo è un errore giudiziario”. Definizione alquanto restrittiva, da cui si deduce che l’ultimo infortunio risale agli anni Cinquanta del secolo scorso: il caso di Salvatore Gallo, condannato all’ergastolo per aver ucciso il fratello che però – sorpresa! – era vivo e pimpante. E va bene che Di Pietro, cugino anch’egli degli scimpanzé, non ha troppa dimestichezza con i rami della scienza giuridica; ma la riluttanza a riconoscere la possibilità stessa dell’errore, se non come ipotesi di scuola, è confermata da esemplari più evoluti della specie togata. Leggi il seguito di questo post »
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