I, the Jury. De Cataldo a Venezia (Mani bucate, 16)
Con un bel titolo spaccone da romanzo di Mickey Spillane – “Io, giurato” – Repubblica ha presentato lunedì il diario del magistrato-scrittore Giancarlo De Cataldo sui suoi giorni al festival di Venezia. Niente noiose incombenze tribunalizie, niente motivazioni da depositare, lo smoking al posto della toga, film non tutti esaltanti ma comunque più spassosi di una sfilata di testimoni, periti e imputati, Sam Mendes a presiedere l’assise, bellezze come Nina Hoss e Gemma Arterton che ti aspettano in camera di consiglio. Eppure, ci vuole ben altro per mandare in vacanza la deformazione professionale. Alla fine, come si sa, hanno premiato un film filippino su una donna che si è fatta trent’anni di carcere per un omicidio di cui era innocente, una storia ambientata nel 1997. “Aspettiamoci critiche. Un mio vecchio capo diceva: quando una sentenza scontenta tutti, allora è giusta”.
Avevo già sentito quella frase. Non mi stupisce che sia tornata in mente anche a De Cataldo, perché l’occasione era un’altra vicenda iniziata nel 1997 e legata a gente che si è fatta un bel po’ di galera per un delitto non commesso. È la frase che Francesco Amato, presidente di una corte in cui De Cataldo era giudice a latere, usò per commentare le reazioni alla sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Marta Russo, che aveva condannato – ma non troppo – i principali imputati. Se scontenta tutti, disse Amato, vuol dire che è giusta. La sentenza in effetti scontentò tutti (era sbagliata), e lo scontento trovò espressione in un aggettivo che passava di giornale in giornale: una sentenza “salomonica”.
Si sa che la Bibbia è una fucina di false attribuzioni: Giobbe non era paziente (lo erano i suoi falsi amici), Onan non era onanista (praticava il coito interrotto), gli abitanti di Sodoma non erano sodomiti (diciamo che erano scortesi con gli ospiti) e Salomone era tutto fuorché salomonico. Se non altro, non lo era nelle sue funzioni di giudice. Il Battaglia definisce giudizio salomonico la “deliberazione che, dividendo un danno o un vantaggio con assoluta imparzialità, mette fine a una disputa”; in particolare, “tesi che trova un compromesso fra due opinioni opposte”. Ma la proposta di affettare un neonato con la spada per distribuirlo equamente tra le due meretrici che se lo contendono – che a rigore non era neppure una sentenza, era un espediente istruttorio – rivela, più che un’indole irresoluta e accomodante, la temerarietà del giocatore d’azzardo, pronto a farsi carico delle conseguenze più angosciose pur di giungere alla verità: e se le due donne avessero accettato?
Ben più salomonica di Salomone era la frase di Amato, così carica di una falsa saggezza curiale da vaso di coccio tra vasi di ferro, di una mentalità da maestro d’asilo che deve tener buona una classe di marmocchi per trovare un po’ di pace dal fracasso. Sottintendeva un’idea del processo come strumento di (cattiva) pacificazione che può richiedere, all’occorrenza, di comporre gli interessi più disparati: salvare la faccia agli inquirenti che l’hanno fatta grossa, placare quanto basta l’opinione pubblica, sottrarsi prudentemente alle ritorsioni della corporazione, scrollarsi di dosso il ricatto emotivo dei parenti delle vittime, tutto questo al prezzo modico (si fa per dire) di una condanna poco più che simbolica, visto che il grosso del supplizio l’imputato lo ha già scontato ben prima della sentenza, tra la custodia cautelare e l’agguato delle indagini preliminari in cui un magistrato ti regge e un giornalista ti mena. Ma più terribile ancora, in quella frase che De Cataldo ripropone come distillato di saggezza, era la luce che gettava sulla psicologia di molti giudici. Scontentare tutti accontentando tutti è il modo di esteriorizzare in una sentenza l’angoscia che non si vuole prendere su di sé, quella della decisione; è una “formazione di compromesso” più vicina alla definizione freudiana del sintomo che all’immagine dell’equanimità; è distribuire a ciascuno una dose omeopatica di un veleno troppo amaro per una coscienza sola; equivale, insomma, ad affettare davvero il neonato, in un numero di bocconi pari a quello delle parti interessate.
Merita di esser detto salomonico il giudice pronto a pagare con le proprie notti insonni la serenità del giudizio; quello per cui “quando una sentenza scontenta tutti, allora è giusta” si è tentati di chiamarlo pilatesco. Ma a quanto pare – l’ho appreso da uno dei miei ultimi acquisti compulsivi, Il processo di Gesù di Piero Pajardi – neppure Pilato era così pilatesco.
Il Foglio, 17 settembre 2016
“ Mercoledì 9 giugno 1999 – Non è vero che Scattone e Ferraro non hanno niente di speciale. Una cosa ce l’hanno: sono bianchi. Nella televisione, spazio totalmente mitico, pienamente tribale, irriducibilmente selvaggio – il padre (vendicativo) di Marta, il corpo (morto) di Marta, il cuore (trapiantato) di Marta, la « presenza » (mistica) di Marta – i due dottorini, così dialoganti, disponibili, raziocinanti, selfcontrollati, mi sono sembrati l’esploratore della barzelletta, quello che, da dentro il pentolone, dice sempre qualcosa che, per il solo fatto di dirlo, suscita ilarità. Come sono buoni i bianchi, pensa l’antropofagica tv. Che dal cinema almeno questo è sicura di averlo imparato. “.
acabarra59
settembre 19, 2016 at 1:57 PM
Fonte?
Guido
settembre 19, 2016 at 2:31 PM
Adriano Barra, La visione del mondo / Diario 1972-
acabarra59
settembre 20, 2016 at 12:54 PM