Qohélet in cyclette (Mani bucate, 17)
Se mi affaccio alla finestra, sul balcone dirimpetto vedo una cyclette. Il sole sorge, il sole tramonta, la cyclette è sempre lì: nera e abbandonata. Sono trascorse molte stagioni, e il proprietario non l’ha smossa di un millimetro; che voglia giocarmi qualche scherzo allegorico mi pare ormai evidente. Poco male, la prendo come un’occasione per allenarmi negli esercizi spirituali che ho appreso molti anni fa da un articolo di Pietro Citati: “Se avremo immaginazione, accoglieremo nella grande rete delle corrispondenze, accanto alle stelle e ai fiori, quello che gli uomini hanno costruito. Anche un vecchio lavastoviglie o un vecchio computer possono entrare nel regno dei rapporti e degli echi, e perdersi nella tenebrosa e profonda unità, vasta come la notte e come la luce, dove la fantasia ama condurci”. Citati non riusciva a scrollarsi di dosso il vezzo dell’umanista saturnino che trova poetica la tecnologia solo allo stato di rovina. Che abbaglio bovaristico! Lo invito ad ammirare, dalla finestra del microonde, il crepitante spettacolo cosmogonico dei popcorn che si formano nel loro sacchetto; o la piccola cerimonia di possessione della lavatrice nella fase della centrifuga, che si dimena e schiuma come una tarantata salentina.
Ma per le cyclette è diverso. Non ho mai conosciuto una cyclette che non fosse abbandonata, dismessa, arrugginita, esiliata in un ripostiglio o in una soffitta. Anzi, si potrebbe dire che una cyclette trasforma qualunque luogo in un solaio. Esiste simbolo più dolorosamente sfolgorante della vanità di tutte le fatiche umane, della fugacità di tutti i propositi? Un attrezzo metafisico e crudele per muoversi restando immobili, agitarsi senza meta, presto stancarsene e non farlo più. Centinaia di annunci sui siti di commercio elettronico ripetono lo stesso, penoso ritornello: “Vendo cyclette mai usata”, “come nuova”, “usata un paio di volte”. A pochi soldi, per giunta, come per l’ansia di sbarazzarsi di un simbolo così inoppugnabile, di un così sarcastico memento. A dispetto delle mie mani bucate, perfino io fiuto il tranello.
Mi chiedo perché Walter Benjamin non abbia scritto mai nulla sulla cyclette – e mi rispondo facilmente: quando Keene P. Dimmick la inventò, alla fine degli anni Sessanta, Benjamin era morto da un pezzo (avrebbe potuto tutt’al più conoscere il Gymnasticon, una proto-cyclette di fine Settecento, ma dev’essere sfuggita alle sue flâneries archeologiche). Mi dico che se la cyclette fosse esistita qualche secolo prima i pittori olandesi avrebbero fatto a gara per effigiarla nelle loro buie vanitas; e Dürer l’avrebbe senz’altro stipata in qualche angolo del bazar allegorico dell’incisione Melencolia I, tra la palla, la pietra nera e la clessidra. Mi chiedo infine, mentre vedo scorrere albe e tramonti sul balcone dirimpetto, perché nessun editore abbia ancora pensato di usare l’immagine di una cyclette per la copertina di una nuova traduzione dell’Ecclesiaste, già che dal fondo dei millenni Qohélet assiste al farsi e al disfarsi di tutti i nostri piani, i nostri sforzi, i nostri vaneggiamenti: “La fatica dello stolto lo stanca poiché non sa neppure andare in città” (Ec. 10,15).
Il Foglio, 24 settembre 2016
“ Martedì 25 marzo 1997 – Anche in ufficio si fanno le pulizie di Pasqua. Così oggi ho sgombrato la parete di fronte da certi vecchi manifesti e ora sto per realizzare un progetto già deciso da tempo: farò ingrandire e incorniciare convenientemente una certa mia foto piuttosto graziosa in modo da averla sempre davanti agli occhi. E’ stata scattata a Villa Doria Pamphili in una giornata di luce chiarissima, quella luce che solo i fotografi sanno veramente apprezzare. Vi si vede un piccolo uomo che corre sotto i grandi alberi spogli del parco, si vede solo lui, che indossa una tuta colorata, il sentiero opaco, e i tronchi lucenti, scorticati, spellati delle alte piante di cui non so dire il nome perché di piante mi intendo piuttosto poco. Naturalmente è quel correre delle foto, ormai lo so, un correre strano, un correre restando fermi, anzi perfettamente immobili. È questo che ho imparato sulla natura delle foto: la sostanziale immobilità. Quando l’avrò davanti, ogni volta che alzerò gli occhi vedrò quel piccolo uomo che continua a correre senza mai nemmeno avvicinarsi ai bordi della scena, senza mai stancarsi, ora dopo ora, giorno dopo giorno, interminabilmente, incredibilmente, come solo una foto sa fare. “.
acabarra59
settembre 26, 2016 at 4:00 PM