Posts Tagged ‘Mario Moretti’
Malattia melodrammatica
Può capitare che la frase giusta sia pronunciata dalla persona sbagliata, nel momento sbagliato e con l’intendimento sbagliato. La risposta che il capo brigatista Mario Moretti diede a Sergio Zavoli, che gli domandava con quale animo avesse affrontato i momenti prima dell’uccisione di Aldo Moro, è probabilmente uno di questi casi: “È difficile in un paese come il nostro, abituato al melodramma, spiegare la tragedia”. Se in Germania il sequestro Schleyer da parte della Raf apparve subito in una luce tragica – tanto che in un film girato a caldo, Germania in autunno, l’archetipo portante era l’Antigone di Sofocle – in Italia anche al caso Moro abbiamo adattato gli schemi più familiari del melodramma: la vittima tenuta ostaggio da barbari aguzzini, che testimonia nella sofferenza la sua virtù, smascherando viltà e macchinazioni dei vecchi compagni di partito. A questa consuetudine antica – Gramsci parlava di “malattia melodrammatica” – la storica Carlotta Sorba ha appena dedicato un libro prezioso, Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento (Laterza). Prezioso, perché mette in ordine e in prospettiva tratti più o meno latenti della vita pubblica italiana, dal culto della vittima all’onnipresenza delle lacrime all’ostentazione virtuosa dell’indignazione. Leggi il seguito di questo post »
BR – Breaking Red. Dostoevskij a Cuneo
“Ci vorrà un Dostoevskij”, pensava Jorge Semprún a Buchenwald, ci vorrà qualcuno in grado di ritrarre l’anima umana colata a picco nel male. Ma un Dostoevskij non c’era, ed è sempre così, i Dostoevskij sono peggio degli idraulici: mai che ce ne sia uno a tiro quando ne hai bisogno. Le eccezioni sono rare. Quando Nečaev giustiziò a Mosca lo studente Ivanov, affiliato all’organizzazione rivoluzionaria di cui era ideatore e capo, un Dostoevskij in circolazione c’era. Era il 1869, e l’episodio servì da ispirazione per i Demoni. Nečaev, il giovane nichilista precursore di Lenin dedito alla causa della distruzione con un’abnegazione oscuramente confinante con la santità, volle a ogni costo che l’esecuzione del compagno – sul quale aveva gettato la falsa accusa di delazione – prendesse la forma di un linciaggio, di un patto di sangue tale da suggellare la fraternità rivoluzionaria.
“Tutti i problemi del terrorismo, della lotta clandestina, della disciplina di gruppo, del tradimento, delle ‘mani sporche’, della violenza ‘necessaria’ contro i propri compagni, problemi che sarebbero poi ricomparsi sempre più spesso fino a oggi, appaiono qui in una luce cruda e còlti, per così dire, alla loro scaturigine”. Così si leggeva sul risvolto di copertina de Il catechismo del rivoluzionario, il libro di Michael Confino su Nečaev riproposto di recente da Adelphi. L’“oggi” a cui il risvolto della prima edizione alludeva era il 1976, di lì a poco la parabola delle Brigate rosse avrebbe toccato il suo culmine con il rapimento di Moro. Ma più ancora che l’oggi il caso Nečaev annunciava il domani, l’epilogo delirante e autodistruttivo della vicenda brigatista – il nichilismo di Senzani, l’uccisione di Roberto Peci, le selvagge esecuzioni dei delatori in carcere – le cui premesse erano già lì squadernate, e aspettavano solo di svolgersi logicamente. Ci voleva un Dostoevskij per raccontare tutto questo, ma un Dostoevskij non c’era, né sarebbe mai arrivato. Tolto Sciascia e pochi altri, le Br hanno ispirato una letteratura tutto sommato deludente: cose minori, qualche romanzo allegorico o fantastico, un’alluvione di noir pedestri. Leggi il seguito di questo post »
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