Guido Vitiello

Posts Tagged ‘Enrico Berlinguer

Ovvio dei popoli. Momenti di trascurabile banalità

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captain-obvious-comic-coverIl mito della rivoluzione è l’oppio degli intellettuali, diceva Raymond Aron, e lo diceva in tempo utile (i carri sovietici non erano ancora entrati a Budapest). Ben vengano dunque le terapie di disintossicazione, anche le più abborracciate e ritardatarie. Prendiamo il caso italiano. Quando, negli anni Ottanta, si esaurirono le riserve d’oppio rivoluzionario, si prospettò il rischio di un’astinenza di massa, con tutti i sintomi connessi (paranoie, allucinazioni, suicidi). Ci si affidò allora all’oppioide sintetico della questione morale e della diversità comunista, assunto così a lungo e in dosi così massicce da generare a sua volta dipendenza. Oggi, finito anche il metadone del dottor Berlinguer, alcuni medici caritatevoli somministrano un surrogato ancora più blando, quello che Berselli chiamava l’ovvio dei popoli.

Nel 2012 Roberto Saviano rimase folgorato da un saggio su Gramsci e Turati e lo prescrisse agli ex oppiomani: “Consiglio questo libro a chi si sente smarrito a sinistra”, annunciò su Repubblica. Che cosa aveva appreso di tanto eccitante? Che era esistita, un tempo, una sinistra riformista e tollerante. Con soli novantun anni di ritardo, arrivava per Saviano la commovente scoperta della scissione di Livorno. Di questa sinistra buona si erano perse le tracce, a quanto pare doveva essere stata una corrente clandestina, finché il suo spirito non è tornato a vivere nel Pd. Chissà cosa accadrà quando, nel 2051, Saviano s’imbatterà nella Storia del Psi di Antonio Landolfi, che da Turati arriva fino a Craxi, o nella Breve storia del liberalismo di sinistra di Paolo Bonetti. Nel frattempo, meglio cercare i propri modelli altrove, dove capita, perfino nella sinistra cilena ai tempi del referendum del 1988. Leggi il seguito di questo post »

Malattia melodrammatica

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6020646_341473Può capitare che la frase giusta sia pronunciata dalla persona sbagliata, nel momento sbagliato e con l’intendimento sbagliato. La risposta che il capo brigatista Mario Moretti diede a Sergio Zavoli, che gli domandava con quale animo avesse affrontato i momenti prima dell’uccisione di Aldo Moro, è probabilmente uno di questi casi: “È difficile in un paese come il nostro, abituato al melodramma, spiegare la tragedia”. Se in Germania il sequestro Schleyer da parte della Raf apparve subito in una luce tragica – tanto che in un film girato a caldo, Germania in autunno, l’archetipo portante era l’Antigone di Sofocle – in Italia anche al caso Moro abbiamo adattato gli schemi più familiari del melodramma: la vittima tenuta ostaggio da barbari aguzzini, che testimonia nella sofferenza la sua virtù, smascherando viltà e macchinazioni dei vecchi compagni di partito. A questa consuetudine antica – Gramsci parlava di “malattia melodrammatica” – la storica Carlotta Sorba ha appena dedicato un libro prezioso, Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento (Laterza). Prezioso, perché mette in ordine e in prospettiva tratti più o meno latenti della vita pubblica italiana, dal culto della vittima all’onnipresenza delle lacrime all’ostentazione virtuosa dell’indignazione. Leggi il seguito di questo post »

Come mi liberai della decrescita

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Lord-of-the-Flies-1_218275kNeppure avevo fatto in tempo a crescere che già mi ero liberato della decrescita e delle sue mitologie. Avrò avuto sì e no sette anni, e davanti al cancello di una casa di villeggiatura avevo allestito un banchetto di giornalini usati. Il tipico mercatino dei bambini al mare, solo che io non vendevo nulla: i fumetti li prestavo, confidando che si creasse un circolo virtuoso di reciprocità nella gratuità, che la taccagneria mercantile facesse posto a una condivisione giocosa e conviviale delle ricchezze naturali dell’edicola, Topolino bene comune, e tante altre nobili cose che all’epoca, non sapendo ancora parlare come Serge Latouche, avrò senz’altro espresso in modi più sempliciotti. A farla breve, in meno di due ore ero stato saccheggiato da orde di bambini avidi, non ho mai avuto indietro nessuno dei miei fumetti e meno male che le vacanze stavano per finire, o la faccenda avrebbe preso una pericolosa piega da Signore delle mosche e quei piccoli selvaggi mi avrebbero arrostito ritualmente nel falò di Ferragosto. Tramonto di un sogno imprenditoriale, fine del mio modello alternativo di sviluppo, nascita di un piccolo hobbesiano. Leggi il seguito di questo post »

Written by Guido

dicembre 14, 2014 at 12:50 PM

La Grande Rimozione. Sulla damnatio dei socialisti

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SequenzaFidelL’arte del fotoritocco totalitario ha prodotto tanti di quei capolavori che si dovrebbe farne un museo. Nell’ala “Surrealismo” si potrebbero esporre le mani di Karl Radek, che continuavano a dimenarsi, staccate dal corpo del loro proprietario, nel filmato di un congresso della Terza Internazionale: la censura di Stalin aveva tentato di cancellare ogni traccia dell’ex dirigente bolscevico, dopo le Grandi purghe, ma era stata tradita da quel dettaglio rivelatore (lo notò, e ne scrisse, Franco Fortini). L’ala “Realismo magico” potrebbe invece inaugurarsi con una sequenza di fotografie della Rivoluzione cubana, tre versioni successive della stessa immagine. Nella prima, Fidel Castro parla animatamente accanto a Carlos Franqui e ad Enrique Mendoza. Nella seconda, Franqui è scomparso; nella terza, non c’è più neppure Mendoza, e tutto quel che resta è un rincoglionito a bocca aperta che gesticola da solo davanti a un muro. Forse facevano prima a cestinarla. Leggi il seguito di questo post »

…E poi non ne rimase nessuno. L’estinzione dei garantisti

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Metro-PROMO_07Con un acquario si può fare una zuppa di pesce, più difficile è trasformare una zuppa di pesce in un acquario. La battuta che circolava ai tempi del crollo del Muro, a sottolineare l’irriversibilità dei disastri fatti dal comunismo, si presta bene anche ai danni di un ventennio di intossicazione forcaiola. Da più parti si è detto, in questi giorni, che il nuovo gruppo dirigente renziano deve dotarsi di una cultura garantista, e che tra le intemperanze corporative dell’Anm e le inchieste sul Pd emiliano tutti i nodi del rapporto politica-giustizia stanno venendo al pettine. Era ora, verrebbe da dire; se non fosse che, per citare Sciascia, manca il pettine. E se il pettine manca, è perché c’è chi si è messo d’impegno a staccarne uno dopo l’altro tutti i denti. La metafora che ricorre più spesso è un’altra, quella della “mutazione genetica”: la sinistra avrebbe smarrito l’ispirazione garantista trasformandosi in una cinghia di trasmissione della magistratura associata, o in una tifoseria dei pubblici ministeri; dal che si deduce che per tornare dal signor Hyde al dottor Jekyll basta aspettare che la pozione magica cessi il suo effetto. Ma è una metafora inesatta, compiacente e segretamente revisionista. Leggi il seguito di questo post »

Menar Lacan per l’aia. Su Massimo Recalcati

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recalcatiChi consolerebbe, oggi, Luigia Pallavicini caduta da cavallo? Che domande! Massimo Recalcati disceso dalla moto. T’imbatti, in libreria, nella locandina gigante del suo ultimo saggio e non riesci a staccare lo sguardo da quel giubbotto di pelle nera su maglia nera, da quel bavero rialzato, da quella barba di tre giorni, da quegli occhi di picaro romantico, da quel ciuffo tenuto su col gel. E allora immagini la Harley-Davidson parcheggiata dietro la sagoma di cartone, e capisci di avere davanti l’ultimo rampollo, appena un po’ attempato, di una grande famiglia di bad boys dal cuore d’oro che dal Marlon Brando del Selvaggio discende ad Arthur Fonzarelli. Ma vedi pure che quella fonzietudine è mitigata da un non so che di foscoliano (non sarebbe il titolo perfetto di una tragedia del Foscolo, il “Recalcati”?), da una tempestosa dolcezza, da un pensoso e quasi commiserante narcisismo; e allora dimentichi il giubbotto, ripensi piuttosto a quelle sue camicie bianche sbottonate sull’irsuto petto, e al crin fulvo, e agli occhi incavati intenti, e già lo vedi che appresta i balsami beati per la marchesa Luigia. O per il principe Eugenio, di cui si china a commentare, nell’occasione del novantesimo genetliaco, le ultime lettere del Racconto autobiografico. I toni qui s’infiammano, e ti pare di rileggere l’ode a Bonaparte liberatore. Perché stupirsene? Eugenio non avrà creato un Impero ma ha pur sempre fondato una Repubblica, e lo psicoanalista firma di Rep., scrivendone su Rep., non può che cantarne la grandezza, al rintronar di trombe e di timballi, in perfetti endecasillabi lacaniani: di Scalfari loda il coraggio e il desiderio di avventura, il senso dei Lari familiari, il Wunsch dello scrittore, e quel fuoco illuminista che “è l’ispirazione fondamentale da cui è nata l’impresa straordinaria di Repubblica”. Leggi il seguito di questo post »

Gli Happy Days di Berlinguer. Sul vintage politico (e su Renzi)

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263539_mediumLa nostalgia di Berlinguer non è cosa nuova a sinistra, ma aveva raggiunto livelli di guardia all’ombra incombente delle primarie e chissà che non si rinfocoli per il trentennale della morte, l’11 giugno 2014, ora che per alcuni si è aggiunto un altro lutto da elaborare. Lo spettro benevolo e ammonitore del Segretario si aggira un po’ ovunque di questi tempi, non solo nelle invocazioni di Gianni Cuperlo, sfortunato custode della nicchia dei Lari di partito, o nelle memorie d’infanzia di Giuseppe Civati, che alla morte di Berlinguer lega il proprio battesimo politico. Aleggia sul romanzo di Francesco Piccolo Il desiderio di essere come tutti, ispira il monologo teatrale di Eugenio Allegri Berlinguer. I pensieri lunghi come pure il graphic novel Arrivederci, Berlinguer di Elettra Stamboulis e Gianluca Costantini. Paolo Rossi, nel suo ultimo spettacolo, dialoga con il portabandiera della “questione morale” per informarlo della miseria amorale in cui siamo precipitati, e a fine agosto, a Venezia, Mario Sesti e il musicista Teho Teardo lo avevano omaggiato con il breve film La voce di Berlinguer. Leggi il seguito di questo post »

Qualcuno non era comunista

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fabio-fazio-veltroni-bertinottiUno ripensa ad Achille Occhetto che si fa cacciare un tortellino in bocca da Funari, e ne conclude con un sospiro benevolente che no, a nessuno si può negare il proprio quarto d’ora di sputtanamento, la vera e agognata apoteosi che Andy Warhol non aveva saputo prevedere. Ogni politico, intellettuale, uomo pubblico scelga dunque il rituale di degradazione che più gli si addice: il catalogo è lungo. Walter Veltroni e Fausto Bertinotti, scesi ormai dalla giostra della politica, hanno oltretutto guadagnato la divina spensieratezza del proverbiale zio pazzo, che può uscire a comprare le sigarette in mutande senza dover temere più nulla, neppure il meschino spauracchio del ridicolo. E allora, se una sera non si ha di meglio da fare, che male c’è ad andare da Fabio Fazio a recitare, assistiti da Paolo Rossi, Qualcuno era comunista, il monologo-canzone di Giorgio Gaber? Poi certo, si dirà che il problema è a monte, e che la Rai poteva pensare a qualcosa di più frizzante del format “funerali di Gallinari” per commemorare il decennale della morte di Gaber. Se proprio volevano un politico in scena, avrebbero potuto chiedere a Ignazio La Russa di rifare in diretta la sua irresistibile versione di Goganga, e almeno ci si sarebbe divertiti un po’. Ma è andata così, pazienza, e guai a noi se tornassimo a lagnarci della perversa alchimia di Fabio Fazio, che riesce magicamente a rendere detestabile ogni cosa bella, insulsa ogni cosa nobile, e che, con l’intento generoso di trasformare tutti in venerati maestri, trasforma tutti, senza scampo, in soliti stronzi. D’altro canto, il problema non è neppure Fazio: è proprio che la tv, pubblica o privata, sembra incapace di allestire una commemorazione di un personaggio popolare che non sia definibile, in senso tecnico-giuridico, come “vilipendio di cadavere” ex art. 410 c.p. Leggi il seguito di questo post »

Written by Guido

gennaio 23, 2013 at 8:54 PM