Rituali di degradazione, da Cusani a Ruby
Il motto di Oscar Wilde – “Non leggo mai un libro che devo recensire, per non farmi influenzare” – si presta bene anche ad alcuni processi. Per parte mia, ignoro tutto l’ignorabile del processo Ruby e del bis e del ter, non ho letto una riga delle carte, non mi aspetto un bel niente dalle motivazioni e tutto sommato do poco peso alle alterne sentenze, che equivalgono spesso al rigirare la carne sulla griglia a metà cottura (la bistecca essendo l’imputato); ma si tratta di un’ignoranza deliberata, metodologica, programmatica. Tutto quel che mi serviva sapere della vicenda è racchiuso in un delizioso quadretto allegorico che nessuno si è dato ancora la pena di studiare nelle sue mille implicazioni, nei suoi mille sottintesi: la pubblica abiura di Lele Mora, che per compiacere i giudici adottò nelle sue dichiarazioni spontanee gli ipsissima verba degli editoriali di Repubblica – dismisura, abuso di potere, degrado, “tre parole che ho letto sui giornali e che condivido”. E che altro c’era da fare, se non l’infinita esegesi di questa singola scena? Appare chiaro che, in casi come questo, ciò che accade nelle aule di tribunale e si deposita negli atti non è che un piccolo segmento di un rituale più vasto, per il quale dobbiamo ancora trovare un nome, o all’occorrenza ripescarne uno antico. Un libro fantasma può essere d’aiuto.
È l’unico libro importante scritto a tutt’oggi su Mani Pulite, e l’unico che valesse la pena ripubblicare per il ventennale, invece di rovesciare sui banchi dei librai i petulanti tomi agiografici dei soliti embedded di Procura. Si intitola Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, lo pubblicò il Mulino nel 1997 ed è oggi più raro del Gronchi rosa. Non era certo un libro partigiano, e gli autori – Pier Paolo Giglioli, Sandra Cavicchioli, Giolo Fele – erano sociologi e semiologi interessati allo studio del più grande evento politico e mediatico-giudiziario del decennio. Chi voglia capire che cosa è diventato il processo in Italia nell’ultima stagione, da Ruby alla trattativa, deve tornare a quelle pagine, dove il mesto avvicendarsi dei capi della Prima Repubblica davanti a Di Pietro era letto, in termini sociologici e antropologici, come un “rituale di degradazione” volto alla distruzione morale degli imputati, colpevoli o innocenti che fossero in termini di legge (quello è altro affare). “È come soggetti morali, più che come soggetti giuridici, che i leader sfilati di fronte ai giudici sono stati squalificati e di fatto espulsi dalla vita politica”, scriveva Giglioli.
Di questo rituale il dibattimento non era che una parte, e il tribunale uno dei molti palchi: “Il processo si trasformò in una rappresentazione complessa, nella quale apparvero via via sempre più fluidi i confini tra il discorso che avveniva nell’aula, la sua amplificazione mediante la televisione, i commenti della stampa sulla performance televisiva dei protagonisti e i riferimenti di questi ultimi al modo in cui il processo era raccontato dai media e vissuto dall’opinione pubblica”. Altro che circo, un’“opera d’arte totale” mediatico-giudiziaria. Accusati sul duplice terreno della morale e della legge, gli imputati dovettero organizzare due difese parallele, spesso confliggenti, una rivolta ai giudici e l’altra al pubblico. Alcuni (Forlani) accettarono la degradazione morale per uscirne meno malconci sul piano giuridico; altri (Craxi) preferirono difendere la propria immagine a costo di inguaiarsi ancor di più.
Ma non sempre una cerimonia di degradazione va a buon fine; è necessario, tra le altre cose, che l’accusatore appaia come rappresentante dell’interesse generale, e che l’imputato e il suo delitto siano presentati con successo, agli occhi del pubblico, come incarnazioni di una malvagità esemplare. Il lettore applichi da sé queste condizioni al caso Ruby e capirà facilmente perché stavolta – al di là delle sentenze passate, presenti o future – il rituale di degradazione non poteva compiersi. Resta, in tutto il suo splendore allegorico, l’immagine di Lele Mora ventriloquo di Ezio Mauro.
Articolo uscito sul Foglio il 19 luglio 2014 con il titolo Quadretti allegorici
certo, il processo in Italia, perchè il perp walk l’abbiamo inventato noi, oh, wait….
david
luglio 21, 2014 at 11:41 am
Una settantina d’anni fa Ernst Jünger aveva previsto che il declino delle menti dovuto al tecno-centrismo le avrebbe condotte dritte fra le braccia rassicuranti dell’ermeneutica soggettiva, stabile e certo rifugio per chi è terrorizzato da quei brutti mostri chiamati fatti. “Lontano dalla necessità ogni luce può essere inghiottita dall’ombra del dubbio”, scriveva J. ne Il Trattato del Ribelle con la sua classica ed elegantissima durezza. Stesso approccio critico, del resto, si può riscontrare in Essenza del Nichilismo di Emanuele Severino, in cui si argomenta dell’eterna incontrovertibilità dell’Essere e della sua capacità di chiarire costantemente la codardia di chi non ha il coraggio di farvi i conti, facendosi scudo di un improbabile quanto ipocrita relativismo gnoseologico.
quasiscrive
luglio 22, 2014 at 8:40 PM
Non vedo il nesso con tutto il resto, ma bel commento.
unpopperuno
luglio 22, 2014 at 9:17 PM
Con tutto il dovuto rispetto, gentilissimo Guido, mi pare che in questo suo ultimo articolo un garbato ma radicale relativismo gnoseologico si trovi un po’ dappertutto.
quasiscrive
luglio 28, 2014 at 5:16 PM
Non c’è relativismo, c’è una programmatica “messa tra parentesi” del processo in quanto processo, rispetto al processo in quanto parte del rituale di degradazione, sul quale non ho invece nessun dubbio.
unpopperuno
luglio 28, 2014 at 5:22 PM
Certamente Husserl avrebbe urlato come accoltellato se qualcuno gli avesse parlato di relativismo gnoseologico come di una cosa seria – quanto al resto, grazie della precisazione.
quasiscrive
luglio 28, 2014 at 11:56 PM