Nell’incontro di wrestling tra teofili e teofobi fate arbitrare Girard
Sono tempi magri, per il dialogo tra credenti e non credenti. Certo, non a tutte le generazioni tocca in sorte di veder battagliare, come nei primi secoli cristiani, Origene contro Celso o Giustino contro Crescente. Di Feuerbach o di Nietzsche ne nasce – è il caso di dirlo – uno ogni morte di papa, e sull’altro fronte non è che la mamma dei Kierkegaard sia sempre incinta. Ormai il grande duello pubblico sulle cose ultime ricorda quel vecchio sketch dei Monty Python in cui un monsignore e un filosofo si disputano l’esistenza di Dio in un incontro di wrestling. E così (salvo eccezioni) si dividono il ring certi energumeni dell’apologetica che brandiscono come una clava l’ideale ottocentesco di una cristianità alla Chateaubriand e degli atei da baraccone, indistinguibili dai telepredicatori, che illustrano – magari con l’ausilio di un Power Point – i cinque semplici motivi per cui la religione è una truffa. Spesso poi, dopo l’11 settembre, la materia del contendere è il nesso tra religione e violenza: i primi ti dicono che, accantonando Dio, gli uomini finiscono per scannarsi a vicenda; i secondi ribattono che è proprio Dio l’istigatore a delinquere che insinua nelle anime semplici il germe della violenza, e vagheggiano un paganesimo tollerante o una fraternità umana affrancata dal Grande Barbuto.
È il momento di tornare a René Girard, o quanto meno di rallegrarci quando è lui a tornare a noi. Il saggio Violenza e religione. Causa o effetto?, uscito nel 2004 e oggi tradotto da Raffaello Cortina in un volumetto che contiene anche due conversazioni con il teologo Wolfgang Palaver, si apre constatando che “a chiedersi semplicemente se una religione sia violenta o pacifica si elude il fatto che sono gli uomini stessi a esercitare la violenza”. È una triste evidenza, ci azzuffiamo con o senza un Dio a istigarci: basta un pretesto. In forme incruente, vale anche per il dialogo tra atei e cristiani: gli uni fanno degli altri il proprio capro espiatorio, che sia per incolpare il laicismo di tutti i disastri o per attribuire al retaggio cattolico perfino le proprie nevrosi sessuali. Il problema è appunto nella ricerca di capri espiatori. Ma prima di diventare il problema, era un tentativo di soluzione: proprio per addomesticare la violenza, dice Girard, le prime comunità umane s’inventarono il rituale del sacrificio, dove una vittima fa da parafulmine per tutte le rivalità e le discordie. Arriva il cristianesimo e svela il trucco, mostra il sacrificio per quel che è, linciaggio di un capro espiatorio, violenza che scaccia violenza, ma così facendo sguinzaglia di nuovo la belva e la lascia libera di vagare fuori dal cerchio del rito. Come si vede già da questa sintesi bignamesca, c’è poco da esser perentori sulle cause e sugli effetti: la violenza è la magmatica materia prima che le religioni si sforzano di plasmare, finendo ora per contenerla, ora per alimentarla.
Non sono idee nuove: Girard le va sostenendo da quando, quarant’anni fa, uscì La violenza e il sacro. Le va sostenendo, per giunta, con una buona dose di violenza, la stessa che Ortega contestava scherzosamente al neokantiano Natorp, il quale tenne rinchiuso Platone in gattabuia a pane e acqua «per costringerlo a dichiarare che lui, Platone, aveva detto esattamente le stesse cose di Kant». Un interprete con le idee troppo chiare è come un torturatore: costringe testi altrimenti muti a proclamare la loro verità, ad altri estorce confessioni fallaci. Girard, negli anni, ha fatto cantare a meraviglia Dostoevskij, Nietzsche, lo Shakespeare del Giulio Cesare; un po’ meno quello del Sogno di una notte di mezza estate, o Clausewitz, indotti a giurare il falso. Stavolta, nelle conversazioni con Palaver, tra i torturati ci sono il Goethe delle Affinità elettive, Hölderlin e Virginia Woolf, tutti spinti a puntellare le tesi di Girard su rivalità e religione. Lo spettacolo di questa furia ermeneutica è a tratti sanguinoso, è vero. Ma vale cento volte l’incontro di wrestling tra teofili e teofobi.
Articolo uscito sul Foglio il 1 dicembre 2011 con il titolo Qualche violenza di Girard per sostenere le sue tesi su violenza e sacro
Girard, negli anni, ha fatto cantare a meraviglia Dostoevskij,………..
Puoi commentare più diffusamente la tua frase riportata sopra.
Grazie
andrea romano
dicembre 3, 2011 at 4:55 PM
La posso commentare con due titoli: “Menzogna romantica e verità romanzesca” (Bompiani) e “Dostoevskij dal doppio all’unità” (Se).
unpopperuno
dicembre 4, 2011 at 1:17 PM
trovo anche io che la confessione estorta al sogno sia troppo gracile per reggere in dibattimento. forse egli stesso ne era cosciente, tanto da aver presentito la necessità di allestire un incidente probatorio in cui il sogno è costretto ad un aspro confronto con romeo e giulietta. il faccia a faccia è breve ed è contenuto in un breve saggio di una breve raccolta di saggi brevi dal breve titolo “edipo liberato”, ma per quanto risulti a mio giudizio risolutivo non confluisce ne “il teatro dell’invidia”, che ne fa menzione solo per liquidarlo come troppo lungo. se non un grande mistero, una piccola prova che i processi intentati non disattendono completamente i principi del giusto processo. giusto?
ale imbriano
dicembre 6, 2011 at 11:46 am