Archive for the ‘Il Riformista’ Category
“Il fine settimana” di Bernhard Schlink, ovvero: “Compagni di scuola” ai tempi della Raf
Quando un tedesco cerca rifugio dagli orrori della storia, specie se attraversandoli vi si è imbrattato un poco le mani, trova dinanzi a sé due vie: se è un filosofo, si costruirà una baita nella Foresta Nera; se è un non filosofo, s’incamminerà per l’aperta campagna.
Qui cadrà preda di miraggi e idillii nostalgici, fantasie assolutorie, vagheggiamenti kitsch: s’immaginerà – come ben sanno i cultori di Edgar Reitz – che ad accoglierlo ci sia la Heimat, la terra madre eternamente vergine e innocente, soggetta solo ai cicli delle stagioni, lontana dalla rombante Vaterland che chiama i soldati alla battaglia.
Può capitare però che, ritirandosi tra i campi in cerca di pace, sia costretto suo malgrado a fare i conti con il passato; come accade nel romanzo di Bernhard Schlink appena uscito in Italia, Il fine settimana (Garzanti, 206 pagine, 16,60 euro), dove la scampagnata è quella di un gruppo di amici ex militanti o simpatizzanti della Rote Armee Fraktion – la formazione terroristica di estrema sinistra che mise a ferro e fuoco la Germania federale negli anni Settanta – che si riuniscono per tre giorni intorno a un compagno appena scarcerato a seguito di un provvedimento di clemenza.
Bernhard Schlink, giurista e scrittore, non è nuovo a questi esercizi letterari con la materia prima della storia tedesca, specie la più intrattabile e dolorosa. A voce alta, il romanzo che quindici anni fa lo rese celebre anche fuori dalla Germania (e che di recente Stephen Daldry ha portato sul grande schermo con il titolo di The Reader), ripercorre l’altalenante amore tra un adolescente e una ex SS di più di trent’anni, sullo sfondo dei processi di Francoforte contro i funzionari di Auschwitz; La nostalgia del ritorno ha di scena un bambino alle prese con il manoscritto di un soldato reduce dal fronte russo; ma anche nei libri della saga poliziesca del detective Gerhard Selb, come I conti del passato (scritto con Walter Popp) o L’inganno di Selb, i misteri da indagare riguardano immancabilmente la persistenza occulta di vicende trascorse, e rimosse. Leggi il seguito di questo post »
La banalità del male e il male della banalità
Terribile è la banalità del male, ma guardiamoci un poco anche dal male della banalità; da quella retorica della memoria, spesso di ascendenze nobili, che si è impadronita del discorso pubblico su Auschwitz, e che si rianima a ogni 27 gennaio. Nulla di strano: come ogni letteratura che abbia conosciuto una rigogliosa fioritura, anche quella cresciuta intorno alla Shoah ha visto sbocciare i suoi topoi, che l’uso insistito ha convertito nel migliore dei casi in ostinati luoghi comuni, nel peggiore in dogmi arcigni e inespugnabili.
È un formulario liturgico fatto di espressioni come “dire l’indicibile” o “immaginare l’inimmaginabile”, e d’altre ancora dove l’ossimoro, il paradosso, l’iperbole – figure che andrebbero spese con parsimonia, già che tendono le corde del linguaggio all’estremo – sono diventate routine. Come pure risuonano a vuoto, incontrando ormai orecchie ovattate, i “per non dimenticare” e i “mai più”, accompagnati dall’immancabile monito di Santayana sul passato che, se lo dimentichiamo, siamo condannati a ripetere.
Non tutto in queste formule è da rigettare, per carità. Nei luoghi comuni si raccoglie una parte di verità, come nelle piazze delle grandi città: se molti vi transitano, non è certo perché abbiano tutti smarrito la direzione. Ma riscuotere le commemorazioni dalla loro torpida ritualità – purché non lo si faccia con il malanimo e i sinistri sottintesi politici dei provocatori alla Norman Finkelstein – è operazione sempre benemerita. Leggi il seguito di questo post »
Saul Friedländer, lo spaesamento come metodo
Saul Friedländer non si sente a casa in nessun luogo. Da anni ormai è cittadino americano, ma è stato a lungo, ed è tuttora, anche israeliano. Ormai vicino agli ottant’anni, sente nostalgia dell’Europa. Il francese è la sua lingua madre, ma è nato a Praga da ebrei assimilati, permeati dalla lingua e dalla cultura tedesca, che allo scoppio della guerra si rifugiarono in Francia e lo affidarono alle cure di un convitto cattolico per metterlo in salvo, prima di finire deportati nei lager. Ha insegnato a Ginevra, poi per molti anni a Tel Aviv e a Los Angeles. La biografia di quello che è probabilmente il massimo storico vivente dell’Olocausto attraversa continenti, lingue, culture, stagioni. Eppure, lungi dal rifugiarsi nello stereotipo – a volte un po’ civettuolo – dell’ebreo errante, Friedländer ha fatto del suo spaesamento un metodo, e di questo carattere apolide il suo punto di forza come studioso. Aggressore e vittima, appena pubblicato da Laterza (156 pagine, 15 euro), è un plaidoyer per una “storia integrata dell’Olocausto”, una storia cioè che sappia tener conto di tutti gli attori coinvolti in quella serie terribile di eventi, come pure dei loro punti di vista e delle loro mentalità. Ed è anche l’occasione per dare una sbirciatina nel capanno degli attrezzi di un grande storico.
“Ho cercato di tracciare una raffigurazione complessiva che includesse tutte le parti: i tedeschi, l’ambiente europeo e le stesse vittime, le comunità ebraiche e gli individui ebrei”, spiega Friedländer in una lunga conversazione con storici e giornalisti, che occupa la terza e più interessante parte di Aggressore e vittima. Il titolo dell’edizione italiana echeggia quello che vent’anni prima un altro grande storico dell’Olocausto scomparso in anni recenti, Raul Hilberg, aveva scelto per una delle sue opere: Carnefici, vittime, spettatori. A Hilberg, l’autore del fondamentale La distruzione degli ebrei d’Europa, Friedländer riconosce immensi meriti, ma gli rimprovera un’attenzione eccessiva al meccanismo burocratico-amministrativo della Soluzione finale che finisce per eclissare le vite e le storie delle vittime. Al contrario, Friedländer ha scelto di raccontare la storia dell’Olocausto attingendo anche a tutte quelle fonti che Hilberg relegava in secondo piano: la sconfinata mole di diari, testimonianze e memoriali. Il risultato è il monumentale dittico La Germania nazista e gli ebrei, frutto di decenni di lavoro. Leggi il seguito di questo post »
Río Quibú: la Cuba cannibale ha la Castro-enterite
Amare, ironiche, perfino umoristiche – se ci armiamo del necessario “sentimento del contrario” – sono le vicissitudini della figura del caudillo, il governante populista, nella letteratura latinoamericana.
Mario Benedetti, il grande scrittore uruguaiano morto appena qualche mese fa, dedicò il saggio El recurso del supremo patriarca – curioso titolo “patchwork” – a tre romanzi di metà anni Settanta: Il ricorso del metodo del cubano Alejo Carpentier; Io il supremo del paraguaiano Augusto Rua Bastos; L’autunno del patriarca del colombiano Gabriel García Márquez. Tutti e tre i libri ruotavano attorno al massiccio imponente e tenebroso del caudillo archetipico, delineandone i contorni quel poco che bastava perché il lettore avvertito potesse riconoscervi, a piacimento, l’uno o l’altro tiranno locale.
Ma l’umorismo vuole che ad accomunare i tre autori, come pure il loro illustre recensore, fosse anche qualcosa di meno nobile: tutti infatti erano pronti a fare un’eccezione per difendere a spada tratta la dittatura di un caudillo caraibico, tale Fidel Castro. L’unico superstite, García Márquez, seguita a farlo ancor oggi: e proprio il mese scorso glielo ha rinfacciato, dalle pagine del prestigioso Letras Libres, il messicano Enrique Krauze.
Ronaldo Menéndez, esule cubano a Madrid di neppure quarant’anni, non è certo Carpentier o García Márquez, ma quanto meno il suo Río Quibú non soffre di questa maligna o astuta schizofrenia. Su tutto il romanzo – da poco pubblicato in Italia da Fazi (160 pagine, 16,50 euro) – aleggia lo spettro di un non meglio precisato Generale. E anche se Fidel Castro, a differenza del suo pupillo Hugo Chávez, non proviene dai ranghi delle Forze armate, sappiamo benissimo che è lui l’innominato di cui si parla: “Questa è un’isola strangolata e con la lingua di fuori, qui non c’è futuro nemmeno quando muore il Generale”. Leggi il seguito di questo post »
Lost in the Twilight Zone
Immaginate che qualcuno vi racconti questo abbozzo di storia, presentandola come canovaccio di una nuova e rivoluzionaria serie televisiva: un biplano Nieuport ai tempi della Grande guerra attraversa in volo una nube dalle misteriose proprietà; l’uomo che lo sta pilotando si trova catturato in un paradosso spazio-temporale, è scaraventato in una base aerea americana quarant’anni più tardi, sotto gli occhi dapprima scettici e poi allibiti degli abitanti del futuro.
Ecco, se vi annoverate tra i tanti cultori incalliti di Lost che attendono sfiniti la sesta e ultima stagione, quasi di certo alzerete gli occhi al cielo e sospetterete che l’affabulatore in questione voglia immettersi nella scia fortunata della vostra serie prediletta, come tenta di fare proprio in queste settimane il furbesco e raffazzonato FlashForward. Vi sbagliereste, e di grosso. Non è del futuro che stiamo parlando, bensì del passato: la trama è quella di L’ultimo volo, uno degli episodi della prima stagione di Ai confini della realtà, la serie televisiva americana che debuttò sulla CBS nell’ottobre del 1959, esattamente cinquant’anni fa.
Il minimo che si può concluderne è che Rod Serling, che di quella serie fu demiurgo e timoniere per tutte e cinque le stagioni dal 1959 al 1964, inventando e adattando decine di storie e scrivendo buona parte delle sceneggiature, aveva qualcosa in comune con il luogotenente William Decker, lo spaurito pilota britannico a bordo del Nieuport: anche a lui toccò in sorte il privilegio di dare una sbirciatina nel futuro. Leggi il seguito di questo post »
Di come Orwell vide molte cose senza prevederne nessuna
Ci sono scrittori divorati dalla loro stessa fortuna, che come un mostro marino li fa scomparire nelle sue fauci, li rimastica, li spolpa diligentemente, per poi risputarne al più qualche osso lustro, qualche maldigesto brandello.
Ma a pensarci bene, per descrivere quel che capita a questi infelici, metafore altrettanto adatte possiamo trovarle nel prosaico scenario di un giacimento petrolifero: accade cioè che dal ribollente sottosuolo della loro opera la trivella dei critici e dei recensori estragga un piccolo numero di preferiti motivi, e che ad essi riduca l’intero corpus dei loro scritti.
Se poi seguiamo le tappe successive della raffinazione, ecco che osserviamo come da centinaia o migliaia di pagine si perviene a distillare un paio di aggettivi miserelli, adatti a spendersi in ogni occasione che la cronaca, la storia o i casi della vita faranno apparire opportuna: si dirà allora che la tal situazione è kafkiana, o pirandelliana, o boccaccesca, e non si serberà memoria di una sola riga scritta da Boccaccio, Pirandello, o Kafka.
Qualcosa di simile è accaduto a George Orwell, e al suo libro più fortunato, 1984, che fece il suo debutto sulla scena letteraria l’8 giugno di sessant’anni fa. Lo scrittore, polemista e combattente britannico, al secolo Eric Arthur Blair, morto quarantaseienne appena sette mesi dopo aver dato alla luce la sua terrificante distopia politica, sopravvive oggi nel linguaggio comune rannicchiato nello spazio breve di un solo aggettivo, “orwelliano” – che a ben vedere si sovrappone un poco a “kafkiano”, ma senza i grilli metafisici del grande praghese: orwelliana è la propaganda occulta, la scaltra manipolazione dell’opinione pubblica, l’informazione che crea dal nulla immagini della realtà congeniali al potere; orwelliano è quel pervertimento del linguaggio che consente di dire o fare qualcosa sotto la maschera del suo opposto, di muovere guerra inneggiando alla pace, di razzolare da oppressori mentre si predica da liberatori; orwelliano è, infine, qualunque sistema di sorveglianza o di spionaggio centralizzato, qualunque diavoleria elettronica che assedi – più o meno a nostra insaputa – la cittadella della vita privata. Leggi il seguito di questo post »
Modernariato letterario. Sul caso Jonathan Littell
Il tempo per Jonathan Littell è fuor di sesto, out of joint, come lo era per il principe Amleto: proprio non gli riesce di coincidere con l’epoca in cui gli è toccato di nascere.
I detrattori potranno dirlo démodé, dismettere i suoi libri come abiti dalla foggia desueta; gli elogiatori spenderanno per lui la più nobile categoria nicciana dell’Unzeitgemass, l'”inattuale”. Noi crediamo piuttosto che lo scrittore franco-americano sia un caso unico e felice di modernariato letterario, di rifacimento deliberato ma tutt’altro che ironico – anzi, atrocemente serio – di modelli che erano in voga, per così dire, decenni fa.
L’opera che lo ha balestrato al centro della scena letteraria, Le Benevole, fluviale confessione di un aguzzino nazista che gli è valsa il Goncourt e la traduzione in decine di lingue, pare sbucata da qualche sotterraneo degli anni Trenta europei: per le ambizioni titaniche, che chiamano in causa Mann o Musil, come pure per la prosa, le cui oltranze non si spingono più in là di un Céline o di altri spiriti torturati entre-deux-guerres.
Due libri usciti in questi giorni confermano la giustezza della diagnosi, e offrono l’occasione per un bilancio meno effimero del caso Littell. Leggi il seguito di questo post »
Ciò che e vivo e ciò che è morto in Raymond Chandler
Gli estensori di agiografie, o anche solo i biografi riverenti, passano volentieri al crivello i racconti d’infanzia dei loro santi ed eroi, per rintracciarvi le avvisaglie remote di una sicura vocazione: il piccolo chimico già intrugliava nella cucina materna, il trasvolatore oceanico non pareva interessarsi che agli aeroplanini di carta, il dittatore in erba già tiranneggiava nonne e zie.
Ebbene, il biografo di Raymond Chandler che volesse fare altrettanto non avrebbe facile gioco: nulla lasciava intravedere in lui il futuro padre del detective Philip Marlowe, nulla faceva presagire il grande riformatore del racconto poliziesco, il primo giallista accolto nel pantheon di quella che i tedeschi chiamano Literaten-Literatur, la «letteratura dei letterati».
Chandler non poteva vantare, a differenza del suo ammiratissimo Dashiell Hammett, un passato da investigatore privato, e neppure era stato cronista di nera come Georges Simenon; si era dedicato piuttosto agli affari, fino a diventare vicepresidente di una compagnia petrolifera californiana. A sospingerlo verso la carriera letteraria non fu una musa ispiratrice, fu la depressione: quella che mise in ginocchio l’economia del tempo, certo, ma anche quella personale, che lo portò all’alcolismo e a tenaci propositi di suicidio. Perso il lavoro nei primi anni Trenta, s’immerse nella letteratura pulp, fece i suoi rapidi calcoli e concluse che sì, diventare giallista poteva essere una facile via per far soldi. Aveva 44 anni. Leggi il seguito di questo post »
Le lepri di Birkenau. Claude Lanzmann e i suoi “spiriti guida”
“Cela justifie une vie”, aveva detto Jean Daniel a Claude Lanzmann al termine di una delle prime proiezioni di Shoah. E se un film giustifica una vita, il corollario è che giustifichi anche un’autobiografia. Le lièvre de Patagonie, il libro di memorie che il regista e scrittore ha appena dato alle stampe per Gallimard, è anche e soprattutto la biografia del suo capolavoro.
Shoah cinge ormai Lanzmann come una camicia di Nesso; vita e opera sono a tal punto compenetrate che ci s’imbatte, in tutta naturalezza, in confessioni come questa: “Era un periodo buio della mia esistenza e – è lo stesso – della realizzazione di Shoah“. Il film sullo sterminio degli ebrei, costato dodici anni di lavoro e lungo quasi dieci ore, è apparso nel 1985; sul quarto di secolo che ci separa da quella data, coerentemente, il Lanzmann memorialista ci fa sapere ben poco.
L’uscita di questi mémoires era nell’aria da tempo. Nel gennaio scorso, alla Cinémathèque di Parigi, Claude Lanzmann annunciò che stava finendo di scrivere un libro, e aggiunse con fare civettuolo che sarebbe stato “un bel libro”: non volle anticipare altro. Per noi convenuti ad ascoltarlo, tuttavia, almeno altre due cose erano fuor di dubbio: che sarebbe stata un’opera monumentale, e che avrebbe parlato di Shoah. Leggi il seguito di questo post »
Murena, Zolla, Borowski: tre recensioni inattuali
Una notte gli ebrei di un villaggio chassidico, seduti a circolo in una catapecchia, giocavano a confessarsi i desideri più segreti: chi voleva danaro, chi un banco da falegname.
Un mendicante, acquattato in un angolo, prese la parola per esprimere la sua aspirazione: avrebbe voluto essere il sovrano di un vasto regno, preso d’assedio dai nemici, costretto a fuggire nella notte in preda al terrore, senza nemmeno il tempo di vestirsi, con in dosso una camicia acciuffata di corsa, e poi traversare mari e monti per arrivare, sano e salvo, nella catapecchia. “E cosa avresti guadagnato?”, chiesero gli altri, sconcertati. “Una camicia”. Sì, ma una camicia intrisa del ricordo del Regno da cui fummo scacciati con Adamo.
La storiella è riportata da Héctor Murena in uno dei saggi di La metafora e il sacro, pubblicato nel 1973, due anni prima della morte. L’itinerario dello scrittore argentino corse parallelo a quello di Elémire Zolla, di cui fu sodale nell’elusivo cenacolo romano che trovò espressione nella rivista “Conoscenza religiosa”. Come Zolla in Italia, Murena fu il mentore argentino della Kulturkritik francofortese; come Zolla, scrisse una furente critica alla civiltà di massa (Homo atomicus) dove la trasognata lucidità del profeta conviveva con la sottile ciarlataneria dell’indovino che vede ovunque Segni dei Tempi. Leggi il seguito di questo post »
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