Posts Tagged ‘Roberto Benigni’
È finita la commedia. Imre Kertész, 1929-2016
Diceva Martin Amis, capovolgendo il motto di Theodor W. Adorno in una formula altrettanto sentenziosa e in fin dei conti altrettanto falsa, che Auschwitz non ha reso impossibile la poesia ma la risata. C’è da supporre che Imre Kertész, che considerava la frase di Adorno su poesia e barbarie “una fialetta puzzolente morale” (così nell’autobiografia in forma di dialogo Dossier K.), si sarebbe turato il naso anche davanti alla variazione di Amis. Il problema infatti non è accostare la comicità in quanto tale ad Auschwitz. Tutto sta a capire chi ride, quando ride e soprattutto come ride, perché non tutte le risate sono uguali. Leggi il seguito di questo post »
What if Nietzsche…? Esercizi di fantastoria culturale
Sarà pur vero che la storia non si fa con i se, ma con i se la si può disfare a piacimento, e riportare al condizionale tutti i suoi indicativi è un esercizio che ha qualcosa di ubriacante. Gli storici, specie americani, tentano esperimenti di “storia controfattuale” (che ne sarebbe del mondo se Napoleone avesse trionfato a Waterloo, se Alessandro Magno non fosse morto così giovane, se i persiani avessero sconfitto i greci a Maratona?). Gli scrittori di fantascienza immaginano le loro ucronie, o s’inventano macchine del tempo che danno l’occasione, per dirne una, di tornare a Braunau am Inn nel 1889 e uccidere nella culla Adolf bebé così da risparmiarsi una guerra mondiale, un genocidio e l’Oscar a Benigni.
Comincio a pensare che lo stesso espediente si dovrebbe applicare sistematicamente alla storia della cultura, non solo alla storia politica e militare. Me ne ha convinto Bernard-Henri Lévy, ignaro fondatore di un genere giornalistico che propongo di battezzare “coccodrillo controfattuale”. Quando morì Claude Lévi-Strauss, nel 2009, BHL scrisse che la domanda corretta da farsi, al momento di congedarsi da un grande, è questa: che cosa non avremmo senza di lui? Un esercizio di fantastoria, appunto. Faceva seguire un lungo elenco: senza Lévi-Strauss non avremmo lo strutturalismo, le filosofie del Sessantotto, i postmoderni francesi e italiani, Foucault, Deleuze, Agamben, Baudrillard, e non avremmo neppure i suoi libri, i libri di BHL. Crudeli prodigi della fantascienza: a fine lettura, quasi senza accorgermene, ero passato dall’esser triste per la morte di Lévi-Strauss al desiderare che non fosse mai nato. Leggi il seguito di questo post »
La suocera di Zapatero e la morte della satira
Sembrava un problema italiano, ed è un problema mondiale. Non sarebbe la prima volta (il fascismo, la mafia), anche se in questo caso la faccenda, direbbe Flaiano, è grave ma non è seria. In breve, non esistono comici di destra, e quando esistono non fanno ridere: è la vecchia contrapposizione tra i geniacci come Corrado Guzzanti e lo sfottò compiacente del Bagaglino, il cui storico leader, Pippo Franco, cantava non per caso «America, ma che ce vengo a fa’?». Un libro della politologa Alison Dagnes, A Conservative Walks Into a Bar: The Politics of Political Humor, rivela che gli Stati Uniti hanno lo stesso problema. I conservatori a quanto pare non sanno far ridere, e la satira è legata a filo doppio ai liberal. Come mai? Dagnes la prende molto alla lontana (per natura «il conservatorismo è più conformista e lento nel criticare i potenti») ma la risposta, almeno in Italia, non è ideologica, è psicologica: per prendere (e prendersi) in giro bisogna esser sicuri di sé, se non proprio coltivare il complesso dei migliori e della superiorità antropologica, e una destra che vive di risentimenti, sensi d’inferiorità culturale e lamentele di ostracismo non può aspirare a ottenere una risata che sia una. Che può fare, allora? Allevare una nidiata di comici di destra sarebbe perdente, come opporre il rock cristiano a Mtv. Ma attenzione, i conservatori del pianeta farebbero bene a puntare i riflettori su questo piccolo paese dell’Europa meridionale, dove un ometto alquanto istrionesco, che in quindici anni a conti fatti non ha combinato granché, almeno una vittoria l’ha ottenuta, con grande danno per le nostre serate: neutralizzare la satira avversaria. Come ha potuto tanto? È semplice: diventando egli stesso una caricatura, un’iperbole vivente, la copia iperrealista di sé stesso. Come si fa a «castigare ridendo» quando il castigato ride come un pazzo? Uno dopo l’altro, sono caduti tutti: Sabina Guzzanti si è trasformata in una maestrina petulante e incattivita, Daniele Luttazzi da plagiario di talento è diventato un piccolo comiziante, e così via. Sopravviveva, secondo alcuni, la leggerezza di Benigni, ma non per molto: dopo quel colpo d’ala comico che fu «la nipote di Mubarak», il meglio che seppe inventarsi fu Rosy Bindi «suocera di Zapatero». Tutto qui? Una mera permutazione dei termini, perché non si poteva parodiare una realtà già parodistica. La lezione italiana è chiara: se proprio non riescono a far ridere, l’unica speranza dei conservatori è fare i pazzi.
Articolo uscito su IL di ottobre 2012 con il titolo Se la destra non ride la sinistra non c’è
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