Posts Tagged ‘Jacques Lacan’
Il mondo movie di Recalcati
Pasoliniano e polinesiano, è tornato Massimo Recalcati con la rubrica “I tabù del mondo”, ogni domenica su Repubblica. Pasoliniano, perché dice che viviamo una mutazione antropologica, la stessa descritta da PPP, e che se prima eravamo uomini dostoevskiani, presi nella morsa tra delitto e castigo, tra il Desiderio e la Legge, ora siamo nel tempo della disinibizione e del godimento senza limiti. Anche polinesiano però, perché non c’è Desiderio senza Legge, e per darci una regolata dovremmo riscoprire i tabù: uno a settimana per un anno. Cinquantadue sono le tappe previste dal grand tour. Il titolo, “I tabù del mondo”, fa pensare ai mondo movies, gli pseudodocumentari esotici e cruenti degli anni Sessanta – La donna nel mondo, I piaceri nel mondo, Il pelo nel mondo – ma guardando l’intervista di presentazione della rubrica la mia memoria cinematografica ha preso altre vie. Chi si ricorda di Mazzabubù… quante corna stanno quaggiù?, il film del 1971 di Mariano Laurenti ispirato all’elenco dei cornuti di Fourier? Franco e Ciccio sono due monarchici terrorizzati dalla legge sul divorzio, finché un intellettuale che ha la stessa montatura di occhiali di Recalcati li convince che l’unica via per salvare il matrimonio è liberarsi dai tabù, capovolgendo l’idea tradizionale di famiglia. I due lo stanno ad ascoltare un po’ frastornati, si chiudono in una stanza a leggere Wilhelm Reich ed Emmanuelle (con il sospetto angoscioso che sia opera di un Savoia) e ne escono convinti di avere contratto il tabù, come fosse un’infezione strana. Decidono allora di scambiarsi le mogli, un atto di libertinaggio in difesa del matrimonio, tutto sta a convincere le rispettive signore. Franco, che non riesce a farsi entrare in testa quella parola polinesiana, sceglie una via melodrammatica: “Salvami, salvami dal tamburo!”. Leggi il seguito di questo post »
What if Nietzsche…? Esercizi di fantastoria culturale
Sarà pur vero che la storia non si fa con i se, ma con i se la si può disfare a piacimento, e riportare al condizionale tutti i suoi indicativi è un esercizio che ha qualcosa di ubriacante. Gli storici, specie americani, tentano esperimenti di “storia controfattuale” (che ne sarebbe del mondo se Napoleone avesse trionfato a Waterloo, se Alessandro Magno non fosse morto così giovane, se i persiani avessero sconfitto i greci a Maratona?). Gli scrittori di fantascienza immaginano le loro ucronie, o s’inventano macchine del tempo che danno l’occasione, per dirne una, di tornare a Braunau am Inn nel 1889 e uccidere nella culla Adolf bebé così da risparmiarsi una guerra mondiale, un genocidio e l’Oscar a Benigni.
Comincio a pensare che lo stesso espediente si dovrebbe applicare sistematicamente alla storia della cultura, non solo alla storia politica e militare. Me ne ha convinto Bernard-Henri Lévy, ignaro fondatore di un genere giornalistico che propongo di battezzare “coccodrillo controfattuale”. Quando morì Claude Lévi-Strauss, nel 2009, BHL scrisse che la domanda corretta da farsi, al momento di congedarsi da un grande, è questa: che cosa non avremmo senza di lui? Un esercizio di fantastoria, appunto. Faceva seguire un lungo elenco: senza Lévi-Strauss non avremmo lo strutturalismo, le filosofie del Sessantotto, i postmoderni francesi e italiani, Foucault, Deleuze, Agamben, Baudrillard, e non avremmo neppure i suoi libri, i libri di BHL. Crudeli prodigi della fantascienza: a fine lettura, quasi senza accorgermene, ero passato dall’esser triste per la morte di Lévi-Strauss al desiderare che non fosse mai nato. Leggi il seguito di questo post »
La cabala dei devoti. Molière, Garboli e Tartufo
Lasciatemi, vi prego: spenderò i prossimi mesi chiuso nella mia stanza in compagnia di Molière, rileggendo il poco che ho letto e leggendo tutto il resto. I contatti con i miei simili si ridurranno a qualche mancia allungata dall’ombra ai consegnatori di pizze a domicilio. Non che voglia scimmiottare il misantropo Alceste (Laissez-moi, je vous prie è la sua prima battuta), ma non vedo altra scelta dopo aver letto questa frase di Cesare Garboli: “Spesso mi chiedo che cosa ne sarebbe di tanta mitologia culturale contemporanea, se esistesse oggi un provocatore della stessa forza comica di Molière”. Dunque l’ho sempre avuta sotto gli occhi, la chiave, e mi ostinavo a cercarla per angoli bui. Era qui, in questo breve articolo del 1986 intitolato “Come ridere di Lacan?”, uno dei testi di Garboli che Carlo Cecchi ha raccolto per Adelphi in Tartufo. Con il suo personaggio più nero, diceva Garboli, Molière ha creato un archetipo; non già dell’ipocrisia, come per lo più si ritiene, ma del potere intellettuale e spirituale quando nasce dal risentimento e dalla frustrazione. Tartufo è prete, politico e psicoanalista in un sol uomo; è il curatore d’anime, il guaritore di nevrosi e il diplomatico sopraffino; ma è anche l’attore che porta a un grado eroico la malafede congiunta all’intelligenza, l’arci-impostore che illumina suo malgrado l’impostura generale, l’incantatore di famiglie perbene che semina scandalo “nel quieto e mortale teatro di tutti i giorni”, lo spirito intimamente servile che per spadroneggiare deve richiamarsi agli interessi del Cielo. Il cielo della religione, nel Seicento di Molière; oggi il cielo della cultura e del prestigio intimidatorio che conferisce ai suoi sacerdoti. Intorno al 1968, mentre traduceva Tartuffe, Garboli conobbe Lacan in casa di amici e subito fiutò, dietro l’uomo, l’archetipo. Si ritrovò sotto il naso una strana varietà di Tartufo e capì che, proprio come Molière, non aveva l’obbligo di prenderlo sul serio: “Quale mutilazione può essere più orribile di quella che ci vieta di ridere di ciò che è comico?”. Leggi il seguito di questo post »
Menar Lacan per l’aia. Su Massimo Recalcati
Chi consolerebbe, oggi, Luigia Pallavicini caduta da cavallo? Che domande! Massimo Recalcati disceso dalla moto. T’imbatti, in libreria, nella locandina gigante del suo ultimo saggio e non riesci a staccare lo sguardo da quel giubbotto di pelle nera su maglia nera, da quel bavero rialzato, da quella barba di tre giorni, da quegli occhi di picaro romantico, da quel ciuffo tenuto su col gel. E allora immagini la Harley-Davidson parcheggiata dietro la sagoma di cartone, e capisci di avere davanti l’ultimo rampollo, appena un po’ attempato, di una grande famiglia di bad boys dal cuore d’oro che dal Marlon Brando del Selvaggio discende ad Arthur Fonzarelli. Ma vedi pure che quella fonzietudine è mitigata da un non so che di foscoliano (non sarebbe il titolo perfetto di una tragedia del Foscolo, il “Recalcati”?), da una tempestosa dolcezza, da un pensoso e quasi commiserante narcisismo; e allora dimentichi il giubbotto, ripensi piuttosto a quelle sue camicie bianche sbottonate sull’irsuto petto, e al crin fulvo, e agli occhi incavati intenti, e già lo vedi che appresta i balsami beati per la marchesa Luigia. O per il principe Eugenio, di cui si china a commentare, nell’occasione del novantesimo genetliaco, le ultime lettere del Racconto autobiografico. I toni qui s’infiammano, e ti pare di rileggere l’ode a Bonaparte liberatore. Perché stupirsene? Eugenio non avrà creato un Impero ma ha pur sempre fondato una Repubblica, e lo psicoanalista firma di Rep., scrivendone su Rep., non può che cantarne la grandezza, al rintronar di trombe e di timballi, in perfetti endecasillabi lacaniani: di Scalfari loda il coraggio e il desiderio di avventura, il senso dei Lari familiari, il Wunsch dello scrittore, e quel fuoco illuminista che “è l’ispirazione fondamentale da cui è nata l’impresa straordinaria di Repubblica”. Leggi il seguito di questo post »
Come se fosse antani. Genealogia della superbia intellettuale
Del pensiero francese non si butta via nulla, neppure le bucce, ha commentato un mio sarcastico amico davanti all’ultimo opuscolo di Georges Didi-Huberman: Scorze. La francofilia degli editori italiani è cosa nota, eppure ci sono autori che faticano a varcare le Alpi, costringendo un povero incensurato come me a fare lo spallone. Proverò quindi a contrabbandare François George, saggista dai molti pseudonimi che nel 1979 pubblicò un pamphlet intraducibile fin dal titolo, L’Effet ’Yau de Poêle. De Lacan et des lacaniens. Incuriosito dalla nuova moda parigina, George si era intrufolato in un circolo che si riuniva il venerdì sera nella sala interna di un caffè del Quartiere latino per dedicarsi all’esegesi collettiva di Lacan. Non capiva un accidente e si sentiva un cretino, ma tra di loro i lacaniani sembravano intendersi a meraviglia, era tutto uno scambiarsi pensosi cenni di assenso. Il bluff rischiava di saltare quando il barbuto direttore del seminario gli chiese di commentare un passo piuttosto difficile; nel panico, George improvvisò qualche frase a vanvera (qui diremmo una supercazzola) ed era pronto a farsi sbattere fuori nella riprovazione generale. “Ma a poco a poco, mi accorsi che le mie parole, lungi dal suscitare scandalo, cadevano in un silenzio interessato, e constatai una cosa meravigliosa: senza capirmi io stesso, parlavo in lacaniano”. Il direttore gli prospettò perfino un fulgido avvenire nel circolo. Da cretino, George passò a sentirsi un impostore. Seguivano duecento pagine sul lacanismo come scuola esoterico-pitagorica, e su quel gergo ripugnante che valeva, a un tempo, da strumento di dominio intellettuale, da repertorio di parole d’ordine per i membri della confraternita e da arma di seduzione, o di intimidazione, presso la gente colta. Tutte cose che hanno a che fare con il potere più che con la conoscenza. Leggi il seguito di questo post »
Freud contro Lacan (e Allen contro tutti)
Ho un sogno mostruosamente proibito, e non avendo né uno psicoanalista né un confessore mi affido alla cura d’anime dei lettori del Foglio. Ricordate la scena di Io e Annie in cui Woody Allen, in coda per il cinema, si ritrova davanti un massmediologo petulante che sproloquia su Marshall McLuhan? Da dietro un tabellone, per incanto, sbuca proprio McLuhan a sbugiardarlo: “Lei non sa niente del mio lavoro. Come sia arrivato a tenere un corso alla Columbia è cosa che desta meraviglia”. Ecco, ho sempre sognato che in uno dei seminari di Jacques Lacan a un certo punto spuntasse Sigmund Freud in persona, o più verosimilmente il suo fantasma vendicatore, ed esclamasse: “Lei non sa niente del mio lavoro. Le sue speculazioni sull’‘objet petit a’ o sul fallo come ‘radice di meno uno’ sono ciarlatanerie, i suoi calembour pedanti fanno ridere i polli. E poi, se lo faccia dire, lei scrive davvero uno schifo. Come abbia potuto metter su una baracca simile e chiamarla École freudienne è cosa che desta meraviglia, o meglio la desterebbe se non fosse che siamo a Parigi”. Leggi il seguito di questo post »
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