Posts Tagged ‘Andy Warhol’
The Playmate as Fine Art
Alla fine degli anni Sessanta l’America ebbe la sua piccola battaglia iconoclasta. Nella parte dei calvinisti c’erano le militanti femministe più agguerrite, le immagini idolatriche erano i paginoni centrali di Playboy. Dietro l’apparenza politica era una disputa essenzialmente teologica ed estetica; almeno, due episodi spingono a pensarlo. Nel febbraio 1969 al Grinnell College, nell’Iowa, il discorso di un rappresentante di Playboy fu contestato da un gruppo di studentesse e studenti (nudi). In un volantino accusavano la rivista di essere “un cambiavalute nel tempio del corpo”, pastiche tra i Vangeli e San Paolo; e una delle manifestanti se la prese – scelta di parole eloquente – con le “proporzioni idealizzate” delle modelle, ossia con alcuni secoli di storia del nudo. Negli stessi anni un gruppo di femministe s’intrufolò nella Playboy Mansion di Hugh Hefner a Chicago e tappezzò di adesivi i quadri esposti nella sala da ballo. Sarebbe interessante sapere quali dipinti presero a bersaglio, e perché. Quando il fondatore di Playboy si trasferì in California, volle lasciare la mansion all’Art Institute di Chicago, dove aveva studiato disegno; e nel 2010 una parte della sua collezione d’arte finì da Christie’s. Tra i quadri messi all’asta c’era un acquarello di Dalì apparso nello speciale “The Playmate as Fine Art” (gennaio 1967), con opere commissionate a Warhol, Wesselmann, Rosenquist e altri. Chi vide in quelle nove pagine un tentativo di dare legittimità estetica alla pornografia dimostrò di capire poco sia dell’arte sia di Hefner, che sotto la vestaglia di seta da glorified pimp è stato sempre anche un dandy ossessionato dai fantasmi dell’arte. Leggi il seguito di questo post »
Giggino Warhol e la pop art giudiziaria
Voglio appendermi un De Magistris in salotto. Non fate subito pensieri macabri, non si tratterebbe mica di un trofeo di caccia. Pensavo piuttosto a una serigrafia in stile Andy Warhol a tutta parete, su cui il faccione dell’ex magistrato con la bandana in testa e gli occhi da pazzo sia virato in nove colori diversi, come Marilyn. Meglio ancora, una scultura iperrealista alla maniera di Duane Hanson, quello della casalinga che fa la spesa con i bigodini o dei turisti americani obesi. Voglio un De Magistris a grandezza naturale in poliestere e resina sintetica da piazzare al centro del soggiorno, un duplicato indistinguibile a occhio nudo dal De Magistris reale, intorno al quale amici e ospiti possano gironzolare, curiosare, commentare. Leggi il seguito di questo post »
Requiem per un dilettante. Il potere dell’arte, l’arte del potere
Anni fa mi imbattei, non chiedetemi come, in una strana antologia tedesca che più che a un’antologia faceva pensare a un gruppo di perfetti sconosciuti intrappolati tra due copertine come in un ascensore guasto. C’erano Tito Livio, Arnold Toynbee e una malassortita compagnia di storici, umoristi, fumettisti, esperti di studi strategici, scrittori russi mai esistiti e soprattutto autori di fantascienza di mezza Europa. Era un’antologia di storia controfattuale – la storia fatta con i se: se Alessandro Magno non fosse morto giovane, se la Germania avesse vinto la Seconda guerra mondiale – e subito mi colpì un breve racconto di Sabine Wedemeyer-Schwiersch intitolato Requiem für einen Stümper, ossia Requiem per un dilettante. È l’immaginario discorso d’inaugurazione dello Adolf Hitler Museum a Stoccarda, nel 1975, e descrive un universo ipotetico nel quale Hitler non ha mai tentato l’avventura politica perché ha coronato il sogno di diventare pittore. Ammesso all’Accademia di Belle Arti di Vienna nel 1909, il giovane Hitler combatte la Grande guerra (l’esperienza del fronte segnerà la “sensibilità eroica” delle sue opere successive) e vivacchia nella bohème di Stoccarda finché non incontra il suo mecenate e benefattore, l’industriale Albert Häberle, capo della gigantesca multinazionale Häberle-Werke. Grazie a Häberle, lo stile Hitler del “periodo bruno” – fatto di ritratti di lavoratori, paesaggi romantici, scene di mitologia germanica – trionfa a Berlino, a Londra, a New York, domina il mercato artistico mondiale. Le altre correnti pittoriche sono considerate poco più che arte degenerata. Ogni casa tedesca ha il suo Hitler appeso in salotto, e l’impronta del suo gusto è così profonda che, suggerisce l’estensore del discorso, “in un certo senso, si può dire, anche noi siamo opere di Adolf Hitler”. Il grande artista muore a 85 anni, nel 1974, e Häberle istituisce un museo in suo onore. Leggi il seguito di questo post »
Guardare le Polaroid di Moro. Da sordi
Sacrificare senza uccidere, liberare la vittima senza versarne il sangue, che stranezza è mai questa? Eppure, si racconta, i Tatari della regione di Minussink usavano sacrificare al dio del tuono un cavallo vivo: radunati in preghiera sul luogo del rito, gli toglievano le briglie e lo lasciavano correre via. Sarà che la “frezza bianca” evoca a suo modo l’immagine di una criniera, ma l’antico costume menzionato da Calasso nella Rovina di Kasch sembra illuminare la sequenza finale di Buongiorno, notte di Marco Bellocchio: Aldo Moro sciolto dalle briglie nel sogno catartico della sua carceriera-immolatrice. Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate Rosse (Guanda) di Marco Belpoliti si chiude appunto sulla visione di Bellocchio, a segno che il fantasma del presidente cammina ancora tra noi: “Moro indossa sul pigiama da prigioniero il proprio cappotto e va a passeggiare indisturbato per la città aperta seguito passo dopo passo dalla musica dell’Aida verdiana”. A voler fare i pignoli, non è l’Aida, sono i Pink Floyd, nonché il Momento musicale n° 3 in Fa minore di Schubert, lo stesso che in E la nave va di Fellini era eseguito con dei bicchieri. Ma al di là delle pedanterie, il libro di Belpoliti va a comporre – accanto a Il corpo del capo e La canottiera di Bossi – un’ideale trilogia delle occasioni sciupate.
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