Archive for the ‘La Lettura’ Category
Le confessioni secolarizzate
La confessione è un genere letterario? Sì, ma lo diventa solo al termine di una lunga secolarizzazione. Tutto comincia, a sentire María Zambrano, con Giobbe, il giusto che lamenta le sue sventure in prima persona. Dall’erosione di quell’antico ghiacciaio biblico la confessione, con Sant’Agostino, prende corso e figura di fiume e scorre, allontanandosi via via dalla sua fonte religiosa, fino alle Confessioni di Rousseau, per sfociare infine nei romanzi di Proust o di Joyce. Questa, pressappoco, la linea tracciata nel saggio La confessione come genere letterario. Letterario, ma fino a un certo punto: ogni confessione, dice Zambrano, è parlata anche quando è scritta, aspira a essere parola pronunciata a viva voz. Parola, vorremmo aggiungere, bisbigliata in un ipotetico confessionale dove al di qua della grata siede il lettore-sacerdote, che dispensa indulgenze e assoluzioni.
Molto si è scritto, dai tempi di María Zambrano, sulla laicizzazione della confessione che diventa diario, memoriale, romanzo e da qualche tempo anche un ricco filone editoriale (dalle Confessioni di un sicario dell’economia alle Confessioni di una groupie, passando per decine d’altri titoli). Un po’ meno si è ragionato sulle metamorfosi laiche del confessionale, l’arredo liturgico semplice e ingegnoso che il cardinal Borromeo diffuse nella Milano della Controriforma, con quella lastra di metallo traforata che consente di dire cose terribili senza esser visti, e quei tendaggi che proteggono la penombra di un rituale che non è pubblico ma che non è neppure del tutto privato, e che anzi tra pubblico e privato, tra istituzione e coscienza, consente i commerci più vari. Continua a leggere su La Lettura.
Più Sciascia, meno Pasolini
Io non so come Pasolini intendesse il suo «Io so». Ma dietro quella cupa requisitoria, quasi intonata a litania, mi piace immaginare una segreta risata: la risata di chi sta calando in tavola la carta del supremo bluff poetico, la folle millanteria di un barone di Münchhausen che si è afferrato da solo per il codino e si è issato sul tetto del Palazzo per accusarne dall’alto gli inquilini. Io so i nomi dei mandanti delle stragi, annunciava Pasolini in quel suo articolo sul «Corriere della Sera» del novembre 1974. Io so perché sono un intellettuale che restaura la logica dove regnano l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Ma non ho le prove, neppure un indizio.
Che vi fosse o meno, in quel temerario impancarsi a giudice, una goccia di goliardia, di certo è evaporata senza residui via via che il suo gesto poetico e civile è diventato prima modello serioso da imitare, poi maniera da scimmiottare, infine posa da ostentare. Dall’«Io so e ho le prove» di Roberto Saviano in Gomorra, passando per l’«Io so» nazional-dietrologico di Walter Veltroni, per l’«Io non so se so» di Antonio Tabucchi e per l’«Io so» in piazza di Sonia Alfano, si è arrivati al capolinea dell’Io so di Antonio Ingroia, titolo del suo libro-intervista sulla presunta trattativa Stato-mafia. Continua a leggere su La Lettura.
Buddha il popperiano
Nietzsche scoprì la Ruota del Dolore buddhista, la maledizione delle rinascite, gli eterni cicli del samsara, e battezzò tutto questo Gaia Scienza: «Sarei curioso di sapere qual era la sua idea di una Scienza dolorosa», commentava Chesterton. Certo è che di questi tempi la prospettiva di una nuova vita, fosse anche come alce o armadillo, ci appare, se non proprio gaia, neppure così sciagurata. Chi un giorno si interrogherà sulla persistente moda della reincarnazione in Occidente potrà dedurne le cause da alcuni fattori contestuali: un certo benessere materiale, l’allungamento della vita media, una fifa cieca che nasce dalla scarsa dimestichezza con la morte, l’ideologia dilatoria della seconda, terza o quarta possibilità; non ultimo, l’esser cresciuti con i videogame a vite multiple. Le idee nascono e si affermano sempre in un punto determinato della Storia, anche quando paiono trascenderla o negarla. Continua a leggere su La Lettura
Slavoj Žižek spiegato ai bambini
Quando Jean-François Lyotard pubblicò Il postmoderno spiegato ai bambini, c’era da evocare il vecchio Groucho Marx: «Anche un bambino di quattro anni potrebbe capirlo… Va’ a trovarmi un bambino di quattro anni, perché io non ci capisco niente». Del resto, la familiarità dei piccini con le filastrocche, le ninnenanne e gli scioglilingua li dispone meglio verso certe formule cullanti e incantatorie dei filosofi: chi corre in cerchio al grido di «giro girotondo, casca il mondo» non avrà problemi a farsi dire da nonno Heidegger che il mondo mondeggia e il nulla nulleggia. Ma chissà che non sia questo l’atteggiamento più proficuo e, in fin dei conti, il più sano. Davanti a certi grandi affabulatori verrebbe da esclamare, come le dame di La Bruyère ammaliate da un oratore alla moda: «Delizioso; che cosa ha detto?». Continua a leggere su La Lettura.
Elenco analitico degli scrocconi letterari
Charles Fourier compose un elenco analitico dei cornuti, distinguendone un’ottantina di tipi, e altrettanto si potrebbe fare con gli scrocconi, tale è la varietà dei caratteri, dei moventi e degli espedienti di chi mangia a sbafo. Ma a conti fatti, per il padrone di casa depredato la distinzione che importa è una sola: ci sono scrocconi simpatici e scrocconi antipatici. Distinzione che ne sottende spesso un’altra, meno lampante, tra lo scroccone consapevole e quello che s’indignerebbe a esser definito tale. Scroccone inconsapevole, dunque? Sarebbe più corretto definirlo mitomane: a nascondergli la sua natura è infatti la misura della sua presunzione. Chi si sa destinato a grandi imprese non ha forse diritto a vivere a spese del gregge? Nel romanzo Il Rosso e il Nero di Stendhal la fulminea ascesa sociale di Julien Sorel, figlio di falegname con ambizioni napoleoniche, si spezza quando una lettera della prima amante getta sulla sua parabola una luce sospetta: «Sono costretta a pensare che uno dei suoi mezzi per farsi valere in una casa sia sedurre la donna che vi è più stimata. Mascherato da un apparente disinteresse e da frasi da romanzo, il suo grande e unico obiettivo è riuscire a disporre del padrone di casa e della sua fortuna». Quanto a scrocconi di questa sorta, però, nessuno supera in antipatia Fomà Fomìc. Continua a leggere su La Lettura.
Il circo mediatico-letterario. Intorno a “Romanzo criminale”
Dalla cronaca al romanzo, dal romanzo al film, dal film alla serie tv, dalla serie tv di nuovo al romanzo, e poi tutto daccapo, come in un rondò schnitzleriano. Un circo mediatico-letterario, messo in moto non per nulla dal libro di un magistrato. Dieci anni fa Giancarlo De Cataldo pubblicava Romanzo criminale, ispirato alle vicende della Banda della Magliana. Oggi torna a visitare quel mondo con Io sono il Libanese (Einaudi), che racconta l’apprendistato del fondatore della banda, e che nel titolo fa eco al grido inaugurale del primo romanzo: «Io stavo col Libanese!». Il cerchio sembra chiudersi, ma non è un cerchio, è una spirale, una scala a chiocciola dove a ogni giro ci si allontana un poco più da terra, fino a smarrirsi tra le nebbie del mito. Nelle prime pagine di questo Bildungsroman criminale il giovane Libanese, intontito dal marocchino (inteso come hashish), ha una gloriosa premonizione: «Era nudo, e dominava Roma da una magnifica terrazza piena di fiori e piante esotiche». Più che il figlio di un fornaio di Trastevere pare il Leonida della saga 300 di Frank Miller, dove il re spartano diventa un body-builder col sospensorio. «Il Libanese era una macchina da guerra, il Libanese era il dio stesso della guerra». Ma era «un guerriero che un giorno sarebbe stato re», perché aveva un’idea chiara del suo destino: «Voleva diventare il re di Roma». Come si è giunti a queste vette di sublime pacchianeria antico-romana? Continua a leggere su La Lettura
Quella voglia terrena di Eden
Non è affare di mistica, bensì di matematica: la ricerca del Paradiso, per l’esattezza, è una comunissima equazione a due incognite. Ci sono quattro fiumi, tra i quali il libro della Genesi fissa le coordinate del giardino dell’Eden. Due di essi — il Tigri e l’Eufrate — li si trova facilmente sulla carta geografica. Ma dove diavolo sono il Pison e il Ghicon, sempre che siano mai esistiti? Il rompicapo è arduo, certo, ma non tanto da scoraggiare gli spiriti affetti da quella che la giornalista Brook Wilensky-Lanford, parafrasando il Paradise Lost di Milton, chiama «paradise lust», la brama di Paradiso. Che la ricerca dell’Eden fosse tra i rovelli del Medioevo cristiano e della prima età moderna lo si sapeva bene, c’è perfino chi ha raccolto in volume le mappe congetturali di questa «geografia sacra». Meno noto è che le poeticissime e folli esplorazioni siano proseguite in tempi vicini ai nostri, dopo Darwin, il Big Bang e tutto il resto. Continua a leggere su La Lettura.
Vieni avanti, Critone. Sui libri-intervista
«Una confessione per iscritto è sempre menzognera». Lo diceva Italo Svevo, o meglio lo diceva Zeno, o forse entrambi, e questo è solo il primo di molti tranelli. Non per nulla l’autobiografia ha fama di essere il più malfido dei generi letterari; si presta a tutte le reticenze e le compiacenze, agli accomodamenti retrospettivi, alle civetterie. Qui si lascia osservare l’analogia fondamentale tra l’ego umano e il soufflé in cottura, che è tutto un informe gonfiarsi e ribollire finché non lo trafigga la punta di una forchetta. Ecco, questa forchetta potrebbe provvederla il formato del libro-intervista, dove il narcisismo dell’autore cozza a ogni pagina con un emissario del principio di realtà, l’intervistatore. In altre parole, l’unico rimedio all’espansione incontrollata del soufflé è il dialogo, e anche per questo c’è chi mette in capo all’albero genealogico degli intervistatori Platone, fondatore del libro-intervista in forma di dialogo filosofico. Genealogia rivelatrice da qualunque lato la si guardi, perché 1) Platone scriveva sia le domande sia le risposte, se la suonava e se la cantava; 2) certi intervistatori di Socrate erano, per dire il meno, piuttosto accomodanti: Critone non fa che punteggiare gli sproloqui del maestro con i suoi «vero», «è chiaro», e «come no?». Ergo, dire che Platone è il padre del libro-intervista equivale a dire, grosso modo, che ogni intervista è un’intervista immaginaria o un monologo camuffato. Continua a leggere su La Lettura.
I figli naturali del marchese de Sade
Un giorno, quando saremo stanchi della critica di costume e di una sociologia un po’ pettegola, dovremo disporci a guardare certe vecchie affiche pubblicitarie come fossero emblemi allegorici cinquecenteschi, e a leggere i loro slogan come gli enigmatici motti in latino che li accompagnavano. Risale al 1890 il magnifico manifesto dello Universal Food Chopper — tradurlo con «tritatutto» lo spoglierebbe di solennità — della Landers, Frary & Clark, una ditta di articoli per la casa. Al centro del quadro stava il corrusco congegno metallico, verso le cui fauci, come rapiti in un vortice, confluivano esseri d’ogni specie: maiali, cavoli, fagiani, sedani, galline. Nulla scampava alle mandibole del maciullatore universale, quasi un Lucifero dantesco o un diavolo di Bosch, metafisico arnese che duplicava il ciclo della natura, con la sua catena di divoratori e divorati, in una crudeltà lucida, metodica, industriale. Uno degli oggetti più comuni in cucina era annunciato da un manifesto che sembrava tradurre in immagini la filosofia del marchese de Sade. Che il più radicale dei pensatori libertini sia l’occulto nume tutelare della tranquilla quotidianità in cui siamo persuasi di vivere? Articolo uscito il 6 maggio 2012. Continua a leggere su La Lettura.
Il potere terribile di giudicare. Sul “Diario” di Dante Troisi
Ci sono morti che è come fossero vivi, tanto imperiosa si avverte la loro presenza; e ci sono vivi che deambulano nel nostro tempo con le orbite spente, come fossero morti. Lo stesso è dei libri, tutto sta a esercitare il giusto discernimento degli spiriti. Due note recenti di Andrea Camilleri non rivelano un buon discernitore. La prima è la prefazione ad Assalto alla giustizia (Melampo), un pamphlet di Gian Carlo Caselli sulla politica e la delegittimazione della magistratura, da cui emerge il ritratto stentoreo di un giudice combattente, lancia in resta, che sa sempre dov’è il bene e dov’è il male. Uscito in libreria a Berlusconi caduto, ha la stessa irrimediabile vecchiaia del giornale di ieri, e gli elogi di Camilleri all’«importante volume» non bastano ad allontanare l’impressione che il tempo abbia già dato il suo verdetto. La seconda nota è la postfazione al Diario di un giudice di Dante Troisi, un libro uscito nel 1955 che Sellerio riporta ora in libreria. Una postfazione diligente, antiquaria, filologica se non necrologica, tutta al passato remoto. Eppure il libro di Troisi non è vecchio, è semmai — direbbe Friedrich Nietzsche — «inattuale»: non è a misura del proprio tempo, e forse per questo ne rivela i segreti. Soprattutto, circonda di un cono di luce abbagliante un tema che è di questi giorni come di tutti i giorni, passati e futuri: la responsabilità di chi accede al potere più terribile, il potere di giudicare i propri simili. Articolo uscito il 24 marzo 2012. Continua a leggere su La Lettura.
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