Guido Vitiello

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Apocalittici e cassintegrati

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manoscritto-snoopy

Vite (e copertine) parallele. Guido Morselli raccoglie in una cartellina azzurra le lettere di accompagnamento ai suoi manoscritti e i sistematici rifiuti degli editori. Stanco, tra le altre cose, di questo ostinato diniego, nel 1973 si tira un colpo di pistola. Antonio Moresco cataloga lui pure i rifiuti, e soprattutto le lettere petulanti con cui rimprovera o blandisce i suoi destinatari colpevoli di ignorarlo – editori, critici, scrittori. Ma invece di spararsi (Dio non voglia) le pubblica. La cartellina di Morselli porta sul frontespizio il disegno a matita di un fiasco, simbolo amaro del fallimento. Il faldone di Moresco, approdato a Einaudi nel 2008 con il titolo Lettere a nessuno, ha invece una copertina pacchiana simil Gallimard che è il sogno di ogni parvenu, oltre il quale c’è solo il finire incartati in quei Ferrero Rocher editoriali che sono i Meridiani Mondadori. Va da sé, tra Morselli che si spara e Moresco che per poco non si appella al Tar del Lazio per farsi pubblicare c’è un vasto spettro di possibilità intermedie. Ma questi due estremi descrivono bene l’arco che dagli ultimi bagliori del mito romantico del genio incompreso ha portato alla fase attuale, dove lo spettro del fallimento si affronta per vie più o meno sindacali. Non c’è da stupirsene, visto che la cittadella letteraria ha incorporato negli anni, spesso senza saperlo, tutti i meccanismi con cui si amministra il potere negli altri ambiti – corporativismo, partitocrazia, capitalismo di relazione, ribellismo consociativo, spirito sindacale, terrore del rischio d’impresa. Cosa può fare, dunque, un giovane scrittore che lotta per emergere? Abbandoni le pose alla Jacopo Ortis. La via più semplice è affiliarsi a una delle tante camarille più o meno informali che possono far capo a un venerato maestro, a una venerata rivista o a entrambi, sorta di correnti di partito che funzionano anche come sistemi di mutuo riconoscimento e di mutua adulazione (un po’ come le finte case editrici a pagamento e i finti premi letterari oggetto di tante satire, sennonché i premi cosiddetti veri sono ormai del tutto indistinguibili dai finti). Se è scaltro, potrà anche destreggiarsi tra famiglie rivali o lanciare una sua sigla sindacale, ma è impresa rischiosa che riesce solo ai più gesuitici. Il vantaggio di questa forma di amministrazione partecipata del talento e più ancora del mancato talento (Elémire Zolla la chiamava “congiura degli inetti”) è che disinnesca all’origine la possibilità del fallimento. Certo, la gloria non arriverà, perché quasi mai arriva, circostanza che si può facilmente addebitare alla rapacità del capitalismo editoriale (leggi: socializzare le perdite); ma se dovesse arrivare, il nostro scrittore troverà intorno a sé sodali pronti a giurare che ciò è avvenuto malgrado la rapacità del capitalismo editoriale (leggi: privatizzare i profitti). Il rischio d’impresa letterario è annullato, non si dovrà mai dichiarare bancarotta, e si può andare avanti così: apocalittici e cassintegrati. Leggi il seguito di questo post »

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agosto 1, 2015 at 2:24 PM

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Usi del crocifisso di Morales (con invito a rileggere Revel)

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la-grande-parade-de-jean-francois-revel-4054-MLA115046210_5242-F“A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra” (principio evangelico). “Se qualcuno insulta tua madre, mollagli un pugno” (corollario di Bergoglio). “Se qualcuno ti regala un crocifisso ibridato con la falce e martello, daglielo tre volte in testa: la prima per la sua rieducazione estetica, perché non si rifila a un Papa un soprammobile kitsch di quella fatta; la seconda per il suo bene intellettuale, perché la Teologia della liberazione era anch’essa un soprammobile kitsch nonostante le atrocità dei militari e la nobiltà dei martiri; la terza per il puro piacere di sentire il rintocco della sua zucca vuota” (triplice assioma di Vitiello). Questo s’io fossi Papa; e poiché Papa non sono, neppure ho il genio gesuitico di tornarmene dalla Bolivia con due foto ricordo: una in cui Morales mi appioppa il suo monile, l’altra in cui esco in trionfo da un Burger King. Ma appunto non sono Papa, sono solo un tipo irascibile a cui capita di chiedersi, un po’ incredulo: possibile che nel 2015 stiamo ancora a battagliare sul comunismo e i comunisti? In questo stato d’animo non proprio pacificato ho letto un intervento dello scrittore Cristiano de Majo sulla rivista Studio intitolato Addio popolo. Leggi il seguito di questo post »

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luglio 12, 2015 at 1:14 PM

Citare a vanvera

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citvanvUn po’ di scienza allontana da Dio, molta riconduce a lui. Pare che l’abbia detto Louis Pasteur, ma non ci metto la mano sul fuoco perché non sono riuscito a rintracciare la fonte. E proprio questa prudenza, questa circospezione, questa pavidità filologica mi colloca infallibilmente nel vasto gregge dei Citazionisti Mediocri. Lo siamo un po’ tutti, noi che di tanto in tanto agghindiamo i nostri discorsi con qualche bella formula presa a prestito qua e là. Ma sopra le nostre teste, nell’aria purissima, volteggiano i superuomini della citazione, i Citazionisti Sublimi, quelli che hanno compreso che un po’ di citazioni allontanano dall’Arte, ma raffiche di citazioni sparate più o meno a caso riconducono trionfalmente ad essa. Anzi, costituiscono una forma estetica a sé, quella che il poeta Giovanni Raboni battezzò «la nobile arte di citare a vanvera», per la quale si dovrebbe istituire uno speciale premio annuale: le Virgolette d’Oro. Sul podio, come vedremo, finirebbero per lo più giornalisti. Ma facciamo un po’ d’ordine. Leggi il seguito di questo post »

Divisi in famiglia

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breve-storia«I Tories mi chiamano Whig, e i Whigs Tory». L’antico verso di Alexander Pope sembra scritto per consolare quegli infelici che, in Italia, si ostinano a definirsi liberali di sinistra. Oggi le cose sono più facili, ma per tutto l’arco della Prima Repubblica i rampolli di questa strana famiglia – dal Partito d’Azione agli Amici del Mondo al Partito Radicale – hanno penato molto a farsi riconoscere un posto sulla mappa politica. Visti da sinistra erano a destra, visti da destra erano a sinistra, eppure non erano al centro: bel rompicapo da Settimana Enigmistica. C’è da dire che un po’ se la sono cercata. La formula signorile con cui Pannunzio riassumeva l’ispirazione del Mondo – «progressisti in politica, conservatori in economia, reazionari nel costume» – non aiutava granché a far chiarezza. Aggiungiamo una certa litigiosità endemica del liberalismo italiano, a destra come a sinistra: la vecchia battuta secondo cui i liberali possono convocare il loro congresso in una cabina telefonica va emendata dicendo che, una volta là dentro, la prima cosa che fanno è prendersi a cazzotti per dissensi inconciliabili sulla disputa Croce-Einaudi o sulla valutazione storica di Giolitti. E se si azzuffano in una cabina telefonica, possono farlo anche tra le copertine di un libro. Breve storia del liberalismo di sinistra (Liberilibri) dà l’occasione di assistere a un’adorabile lite condominiale tra l’autore, Paolo Bonetti, e il postfatore, Dino Cofrancesco. Bonetti compone con dottrina ed eleganza un magnifico ritratto di famiglia, da Gobetti a Bobbio. Cofrancesco lo smonta punto per punto, riaprendo con l’occasione l’eterna querelle sull’azionismo. Storia e controstoria in un solo volume: il duello, cavalleresco e generoso, è da applausi. Da liberale apolide, come tanti nella Seconda Repubblica, mi sono sentito finalmente a casa. Ma una casa divisa in sé stessa non può reggersi, dicono i Vangeli, e così mi è tornato in mente, con un brivido, un Maurizio Costanzo Show di molti anni fa. Era un «uno contro tutti» di Marco Pannella, e tra i tutti c’era Bruno Zevi, allora presidente del Partito Radicale. Quando venne il suo turno, Zevi fu feroce: ma insomma, disse a Pannella, ci vuoi dire chi cavolo siamo? E prese a elencare le innumerevoli sigle della galassia radicale. Lo spettatore medio doveva già essere piuttosto disorientato da quella litania, sennonché Zevi , rosso come un peperone, prese a inneggiare a un’altra sigla ancora, estinta da mezzo secolo: «Viva il Partito d’Azione!». Leggi il seguito di questo post »

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marzo 25, 2015 at 12:41 PM

Trolls Inc.

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2392237019_01cecd96f8«Ecco io manderò da domani le cavallette sul tuo territorio. Esse copriranno il paese, così da non potersi più vedere il suolo: divoreranno ciò che è rimasto, che vi è stato lasciato dalla grandine, e divoreranno ogni albero che germoglia nella vostra campagna». È l’annuncio dell’ottava piaga d’Egitto, dal libro dell’Esodo, ma la si può anche leggere come profezia di una sciagura a noi più prossima: l’invasione dei troll, i commentatori molesti, pedanti, aggressivi, frustrati, paranoici. Arrivano in sciami a devastare qualunque discussione online fino a farne terra morta, come l’Egitto dopo il castigo divino. Ad avvalorare la profezia, menzionerei la parentela entomologica tra cavallette e grillini. Ma la mitologia del vicino è sempre più verde, e alla Bibbia abbiamo preferito il folklore norreno. Non che la scelta sia scorretta. John Lindow, studioso di mitologia scandinava dell’università di Berkeley, nelle pagine finali di Trolls: An Unnatural History (Reaktion Books), mette la metafora alla prova. Proprio come i loro eredi acquattati nell’anonimato elettronico, i troll sbucano dall’ombra, sono spiccatamente antisociali, minacciano chiunque entri in contatto con loro. Che si scelga l’Edda o la Bibbia, è chiaro che il troll moderno è l’ultima manifestazione di una figura perenne. Io stesso ho visto troll all’opera ben prima di internet: erano i filocastristi che arrivavano ovunque si parlasse di Cuba, a mandare in vacca la discussione; erano i gruppuscoli negazionisti che sabotavano i dibattiti sulla Shoah con provocazioni imbecilli («E allora le foibe?»). A volte ho sospettato che si muovessero in pullman organizzati, e un romanziere alla Pynchon potrebbe divertirsi a immaginare l’esistenza di una Trolls Inc., un’alleanza segreta per la distruzione della civiltà. Congettura non lontana dal vero: governi e aziende ingaggiano i troll per danneggiare i propri nemici, e i siti di news non sanno che inventarsi per arginarli. A dar retta alle fonti antiche, l’unica via è farli fuori. La mitologia norrena insegna molti modi per uccidere un troll, e anche il Padreterno, per metter fine alla piaga, non trovò di meglio che abbattere le cavallette nel Mar Rosso. Tutto fa supporre che abbia fatto lo stesso con i commentatori molesti dell’epoca, per elementari ragioni di Provvidenza. Mosè di lì a poco avrebbe dovuto annunciare solennemente il Decalogo, e non poteva permettersi che, tra un comandamento e l’altro, qualcuno continuasse a ripetere: «E allora le foibe?». Leggi il seguito di questo post »

Written by Guido

marzo 25, 2015 at 12:37 PM

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Salvateci dai buoni

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Manuale-marmotte-1La Guerra fredda è finita da un pezzo, ma auguriamoci che ci siano ancora un bel po’ di giapponesi accampati nella giungla, e che ogni tanto ne sbuchi fuori uno, armato fino ai denti: ne abbiamo bisogno. Per esempio si è riaffacciato in libreria, sotto le insegne non già dell’Imperatore ma dell’editore Rubbettino, un attempato ma ancora battagliero pamphlet di Sergio Ricossa che s’intitola I pericoli della solidarietà. Risale al 1993, tra le macerie del Muro, ed è la cosa più simile che abbiamo in Italia al libello dell’australiano David Stove, What’s Wrong with Benevolence (1989). Quella che Stove chiamava benevolenza Ricossa la chiama solidarietà, ma in entrambi i casi il bersaglio è la pretesa dei filantropi e dei benintenzionati di migliorare le condizioni dell’umanità per decreto. In una delle dodici lettere che compongono il libro (indirizzate di volta in volta alla propria gatta, a Groucho Marx, agli amici di Giobbe…) Ricossa cava tre lezioni dalla storia: «Dunque: a) è già difficile conoscere il proprio bene; b) è difficilissimo conoscere il bene altrui; c) è quasi impossibile realizzarlo, pur conoscendolo». È fatale che il discorso scenda in picchiata su Karl Marx, che quando si mise in capo di guarire l’umanità da tutti i mali commise vari errori, «e il primo, grave, fu di non chiederci se eravamo d’accordo». È come la storiella del boy scout che aiuta la vecchietta ad attraversare la strada, senonché quella non ci pensava affatto, e in più finisce sotto un tram. La critica di Ricossa non è morale, è politica: il guaio della solidarietà programmata è che innesca una catena di conseguenze inintenzionali che spesso producono esiti opposti a quelli auspicati. Si vuole abbattere la miseria, e la si propaga. La Guerra fredda è finita, direte voi, e allora perché baloccarsi con queste schermaglie? Per capriccio vintage, per farsi un giro su una Trabant liberale? Il fatto è che Marx è morto, ma la benevolenza lotta insieme a noi. Specie in un paese dove la politica delle buone intenzioni, della proclamazione di principi virtuosi – sulle droghe l’immigrazione la bioetica il mercato del lavoro il femminicidio – si cura poco degli effetti e produce leggi che sono campi minati di prevedibilissime conseguenze non volute. Un manuale di autodifesa serve ancora, quindi. Anche a guerra finita, e anche nella giungla, perché perfino gli animali hanno «il diritto di respingere “i zoofili” con morsi e graffi, cornate e calci, come fanno frequentemente per sano istinto».  Leggi il seguito di questo post »

Written by Guido

Maggio 23, 2014 at 2:41 PM

Atti capitalistici tra adulti consenzienti

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siamo-tutti-puttane1«Tutte le morali variano, mutano, decadono, spariscono; la prostituzione resta. Perciò, se durata è indice di valore, la prostituzione è superiore all’etica». Chissà se Annalisa Chirico ha letto l’Elogio della prostituzione del futurista Italo Tavolato, apparso il 1 maggio del 1913 su Lacerba (rivista che non può che esserci cara: «Qui non si canta al modo della rane» era il suo motto), ma l’eco di quell’antica goliardata risuona potentemente nel suo nuovo libro, Siamo tutti puttane. Contro la dittatura del politicamente corretto (Marsilio). Com’è nello stile dei manifesti futuristi, già il titolo è una dichiarazione di guerra. E infatti non è un libro, è un ordigno. Possiamo paragonarlo a una cluster bomb, una «bomba a grappolo» congegnata per colpire più bersagli a un tempo: le leggi sulla prostituzione sono un target secondario, la guerra-lampo è condotta anzitutto contro il tono moralistico che aleggia sul dibattito nazionale non appena si parla di sesso e denaro, contro l’abbraccio tra sessuofobi e procure, contro la parte più vistosa e sgomitante del femminismo italiano, quella che ha messo radici nel movimento Se non ora quando. Ma il libro è anche una daisy cutter, una bomba taglia-margherite, perché vuole far strage di tutte le ideologie del candore e della purezza, che s’illudono di liberare il sesso da ogni commistione con il potere, i soldi e l’interesse. Annalisa Chirico – che si definisce «femminista pro sesso, pro porno e pro prostituzione», come la francese Morgane Morteuil, autrice di Libérez le feminisme! – si candida a guidare il fronte del femminismo libertario alla Wendy McElroy o alla Camille Paglia, che in Italia è merce piuttosto rara. Ai suoi occhi la puttana è, prima e più che un mestiere, una metafora individualistica, e prostituirsi è «la sublimazione del godimento della propria indipendenza privata», «uno scambio intrinsecamente morale». Dunque la prostituzione non è superiore all’etica, come volevano i futuristi, ma è essa stessa un’etica? In effetti il libro una morale ce l’ha, e la si può riassumere con la battuta di Robert Nozick: non si possono proibire «atti capitalistici tra adulti consenzienti». Il sesso, come si vede, c’entra solo in parte, e oltretutto è piuttosto ardito sostenere che in Italia esista una dittatura del politicamente corretto. Il punto interessante è un altro. «La prostituzione è sesso più mercato: quale dei due non vi sta bene?», chiedeva McElroy. Almeno per l’Italia, la risposta è semplice. Non è tanto che siamo sessuofobi. È che siamo mercatofobi. Leggi il seguito di questo post »

Written by Guido

Maggio 20, 2014 at 4:30 PM

Malinteso benessere

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L'Angelus di Papa FrancescoBasta analizzare una molecola d’acqua per capire di cosa, per lo più, sono fatti gli oceani. Lo stesso vale per le ideologie, solo che in questo caso l’unità minima non è composta da atomi di idrogeno e di ossigeno, bensì dall’aggregazione di un sostantivo e di un aggettivo. Qualche esempio? Liberismo selvaggio, pensiero unico, poteri forti, macelleria sociale. Sono molecole ideologiche che rivelano infallibilmente di che materia è composta la visione del mondo di chi le usa. Ce n’è un’altra che nessuno ha mai messo sotto il microscopio, e che ingrandita a dovere fa intravedere oceani di giudizi, pregiudizi, sottintesi, sentimenti e risentimenti: malinteso benessere. È comparsa, di recente, in una breve recensione di Gad Lerner al film di Paolo Virzì, Il capitale umano, che a suo dire interrogherebbe le nostre coscienze «sulle brutture che si accompagnano alla ricerca di un malinteso benessere». Ma la formula ha origini più lontane, e la si ritrova per esempio in una lettera di Giovanni Paolo II ai rappresentanti del Movimento per la vita, dove il diritto all’aborto era ricondotto al «desiderio di un malinteso benessere». Passiamola dunque al microscopio. Molte cose possono generare malintesi: un motto di spirito, una filosofia, il senso di una frase, un’intercettazione. Ma che si possa malintendere il benessere e la ricerca della felicità, questo sì è un concetto schiettamente clericale. Malinteso vale qui come sinonimo di un aggettivo assai caro alla teologia morale: disordinato (che presuppone un ordine morale a cui dobbiamo adeguarci, e dal quale possiamo tralignare perché per primi non sappiamo che cos’è meglio per noi). E non sarà un caso se un primo sopralluogo senza pretese rivela che la formula è presente in decine di libri e articoli degli ultimi cinquant’anni, tutti o quasi tutti di autori legati a una delle due chiese, la cattolica e la comunista. O a entrambe. È appena una molecola, ma c’è tutto: una lettura (alquanto cupa) del miracolo economico e delle altre stagioni di relativa prosperità; l’idea che l’arricchimento improvviso, se non saggiamente guidato, possa pervertire i genuini costumi degli italiani; soprattutto, c’è il presupposto paternalistico che esista un’aristocrazia di Buoni Intenditori del Benessere in grado di insegnare qual è il giusto modo, e virtuoso, di essere ricchi. In breve, una molecola clericale che serpeggia nelle menti di molti laici. Ma la mia è una parafrasi fin troppo verbosa, e a buon intenditor poche parole. Ne bastano due. Leggi il seguito di questo post »

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marzo 28, 2014 at 7:43 PM

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Auto da fermi. Un’allegoria

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CasablancaCom’erano belle le corse in automobile nei vecchi film hollywoodiani! I divi sfrecciavano a bordo di una decappottabile, i capelli scompigliati dal vento, lasciandosi alle spalle strade alberate, città, campagne… Non ci voleva un occhio di lince, però, a svelare il trucco: tutto quell’avvicendarsi di paesaggi non era che un film proiettato su uno schermo alle loro spalle. A spettinare Humphrey Bogart o Ingrid Bergman era un banalissimo ventilatore, e l’automobile non avanzava di un metro, stava immobile al centro del set. Esiste migliore allegoria dell’Italia dell’ultimo ventennio? Ogni paese ha il suo modo di affrontare quella che, in un dato periodo, appare a torto o a ragione come la via indicata dalla storia, la strada maestra da percorrere. C’è chi accelera bruciando chilometri, chi avanza in modo cauto o pavido sbirciando continuamente nel retrovisore, chi nell’illusione di far prima imbocca scorciatoie che lo portano a impantanarsi, chi ingrana fieramente la retromarcia o si trincera immusonito in garage. Noi no. Noi mettiamo il cambio in folle, pigiamo allegramente il pedale e impieghiamo tutto il carburante per uno scopo assai più rarefatto e spirituale: alimentare il rombo del dibattito.

L’Italia è quel paese in cui si ha l’usanza di decretare superate cose mai vissute, per il semplice fatto che ne abbiamo parlato troppo a lungo e fatalmente ce ne siamo annoiati. Vent’anni di ciarle sulla rivoluzione liberale – tra chi l’annunciava e chi la paventava – senza vederne neppure una primizia; ma la conversazione infinita, combinata all’infinita inerzia, ha superato comunque una soglia di saturazione. E così, dirigenti politici incagliati su un maggiolino degli anni Settanta ci spiegano che il liberismo è roba vecchia, da anni Ottanta o Novanta, e che perfino gli Stati Uniti e la Gran Bretagna fanno retromarcia, omettendo di ricordare che prima, però, avevano messo la quinta. Noi in compenso ne avevamo parlato, percorrendo chilometri d’inchiostro e di talk show. Il motore insaziabile della chiacchiera si è divorato tutto: il maggioritario, la riforma della giustizia, le coppie di fatto, le privatizzazioni, la riforma della burocrazia, il conflitto d’interessi… vroom, vroom! Ne abbiamo discusso, ci siamo arroventati, il motore era su di giri, ma ora che noia, guardiamo oltre, anzi: parliamo d’altro. La storia è un fondale girato e montato altrove, che ci scorre alle spalle, e la nostra decappottabile se ne sta appollaiata sul set. Però che deliziosa brezzolina, da quel ventilatore! Leggi il seguito di questo post »

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febbraio 20, 2014 at 11:27 am

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Neolingua della politica italiana

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booksIl linguaggio pubblico si è fatto più sudicio delle stalle di Augia, e non c’è Ercole che possa sobbarcarsi in un giorno la fatica delle pulizie, tanto l’aria è appestata da parole vane, sciocche, inutilmente astruse o anche soltanto brutte. Un fiume purificatore dovrebbe spazzar via le mille locuzioni stereotipate (la schiena dritta, il ditino alzato), le parole svuotate da un uso inflazionistico (golpe, fascismo, comunismo), gli accoppiamenti pregiudiziosi (liberismo selvaggio, garantismo peloso), la partenogenesi dei neologismi (malpancista, doppiopesista). Ma queste non sono che mosche, per restare al mitologico letamaio. Perché a intasare le stalle nazionali sono parole ben più ingombranti, che ostruiscono il linguaggio ma soprattutto il pensiero, e che generano senza tregua malintesi, equivoci, ambiguità. Alcuni se ne servono con malizia, altri soggiacciono al loro incanto senza colpa. La confusione delle lingue, intanto, non fa che crescere.

Nel 1799, a Venezia, il gesuita Ignazio Lorenzo Thjulen pubblicò il Nuovo vocabolario filosofico-democratico, un pamphlet antigiacobino nel quale sosteneva che la Rivoluzione era stata più perniciosa del castigo di Babele, avendo confuso non solo le lingue ma anche le idee. La parte più consistente del dizionario si intitolava appunto «Vocaboli che hanno mutato senso, significazione ed idea», ed era un primo esperimento di Newspeak orwelliano, dove ogni termine finiva per designare il suo contrario: «Molti popoli, ingannati da falsi vocaboli e mal intesi, hanno corso dietro a tutto ciò che in realtà detestavano».

Qui non c’è stata nessuna rivoluzione, ma un po’ di ordinaria pulizia non guasta. Leggi il seguito di questo post »

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novembre 21, 2013 at 4:37 PM